mercoledì 5 dicembre 2012
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Gentile direttore,
le scrivo per chiederle dei lumi; ma forse anche una lucetta basterà. All’uscita dalla chiesa, dopo la Santa Messa, siamo in tanti a sciamare, e l’omino con la foto di un bambino sta lì fuori aspettando qualcuno che allunghi un "soldo". Come mai quest’uomo, vedendo tanta gente che esce, si sofferma proprio su di me e mi segue, quasi che sappia che sono una "pasta d’uomo"? Ed è così ogni volta che mi reco in qualche posto... Ho una famiglia da mantenere, eppure mi sento un verme se non lascio ogni volta almeno qualche decina di centesimi. E a guardare gli occhi di quelle persone quasi mi vergogno: vedo una vera sofferenza. Mi creda: mi viene voglia di non uscire solo per non incontrare questa moltitudine che non posso aiutare veramente. È questa la vita per noi? Che sulla terra ci sia veramente bontà!
Adriano Romaldi
 
Ognuno di noi, gentile signor Romaldi, è unico e speciale. Anche quando si sente o si scopre, per i più diversi motivi, inadeguato o troppo povero. E ognuno di noi, prima o poi, per qualche buona ragione, si ritrova alle prese con la fatidica domanda: perché proprio a me? Perché mi succede questo? Perché questo mi viene chiesto? Io credo che la sola risposta sbagliata, la sola cosa che non dovremmo mai fare è avere paura di scoprire la risposta. E, soprattutto, credo che non possiamo permetterci la paura di misurarci con gli altri, unici e speciali proprio come noi, in qualunque condizione si trovino. Dobbiamo continuamente imparare a misurare i gesti, a superare certo istintivo egoismo tanto quanto a dosare certa istintiva generosità, per non mancare di carità e di delicatezza verso chi ci interpella (con la parola o per il solo fatto di esistere) e per esercitare fino in fondo la nostra responsabilità verso coloro che ci sono cari e che dipendono da noi. C’è un equilibrio possibile che aiuta a vincere questa sfida e anch’io lo chiamo «bontà». Quando ci penso mi vengono in mente mia nonna e mia mamma e la lezione che, con la parola e con l’esempio, mi impartirono da piccino: «Ricordati di essere buono con chi ha meno di te: non dire mai di no a chi ha fame e ti chiede da mangiare. Piuttosto, togliti il pane dalla bocca». Molto è cambiato da allora, dagli anni Sessanta della mia infanzia, da un’Italia di maniche rimboccate, di dignitose e crude povertà e di grandi speranze, ma quell’insegnamento è intatto e in questo tempo di nuova fame (non solo metaforica come c’eravamo illusi che ormai potesse solo essere nella nostra Italia, in questo ricco Nord del mondo) lo sento più impegnativo che mai, così come sento il dovere cristiano e civile che ne discende e che cerco di onorare anche nel mestiere di ogni giorno. Penso, infatti, che «non dire di no a chi ha fame» significhi fare tutta la propria parte per vivere secondo carità e giustizia: dando a chi lavora tutto ciò che gli è dovuto, pagando le tasse, donando a chi ha meno secondo le proprie possibilità, insegnando ai nostri figli che si può vivere la «vita buona» e che farlo è bello.
Ecco perché, gentile lettore, non possiamo proprio avere paura di «uscire» e di incontrare qualcuno di importuno alla porta di casa o della chiesa, per strada o al lavoro... Non so se lei considererà queste parole una «lucetta». Ma da cristiano so che la vita è così, ed è sempre incontro. E la Verità è incontro. L’incontro che più di ogni altro ci incalza, ci scomoda e ci consola.
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