La scrittrice Antonia Arslan
Ci sono incontri che cambiano la vita. A volte lo si capisce subito, in altri casi serve del tempo. Abbiamo chiesto ad alcuni scrittori italiani di raccontare in prima persona per “Avvenire” le ragioni di una relazione che ha rappresentato una tappa significativa nella loro vita, perché ha suggerito un cambio di direzione, ha fornito la conferma della bontà di un percorso oppure ha portato un modo nuovo di guardare alle cose di tutti i giorni.
Per tutta la vita, non ho mai saputo preparare valigie. Invidio con tutto il cuore le persone ordinatissime, che hanno un posto per ogni cosa nei loro bagagli, sacchetti e scatolette pieghevoli per tutti gli usi, portascarpe graziosamente ricamati e creme in confezioni da viaggio. E la nuvola che comincia a circondarmi la testa appena so di dover partire di lì a poco si accresce quando guardo gli altri così ben organizzati intorno a me... Pateticamente sprovveduta, scrivo liste che poi perdo, attacco foglietti sulla mia valigia rossa per non essere sorpresa dal caos mentale la prossima volta, preparo in anticipo materiale che poi dimentico in qualche ripostiglio (la mia vecchia casa, ahimé, abbonda di ripostigli...). Insomma, annaspo – e non è un bello spettacolo: ma purtroppo è un difetto che mi trascino dietro da sempre.
Mi sono tornata in mente di recente, come in una vecchia fotografia in bianco e nero, mentre – tondetta e sudata, a diciott’anni appena compiuti – in un afoso giorno di luglio preparavo la valigia per andare a un corso estivo in Germania, nella tranquilla città universitaria di Göttingen. All’epoca, volevo studiare archeologia, e mi sembrava importante imparare il tedesco, la lingua dei grandi filologi e archeologi dell’Ottocento, come Diels, Wilamowitz, l’amato Schliemann... Così accadde che mio padre prese sul serio i miei vaghi discorsi piuttosto presuntuosi: e invece di stare al mare con mamma e fratelli, come dopo la fine dell’esame di maturità svagatamente stavo pregustando, finii con lui all’apposito ufficio universitario per cercare la mia destinazione in Germania.
Non scelsi Norimberga, troppo conosciuta, ma Göttingen, una delle poche città tedesche non colpita dai bombardamenti. Il suo bel nome italiano, Gottinga, suonava tanto affine a “meringa”, e perciò mi appariva molto accogliente e benevola; c’era anche un’illustre università, ricca di grandi professori e di premi Nobel. Al corso di lingua avevano poi dato il nome augurale di Europa- Kolleg, e la sede era alla Fridtjof-Nansen-Haus, una villona dell’inizio del Novecento intitolata al grande norvegese inventore dei “passaporti Nansen” per gli apolidi, validissimo supporto per molti degli armeni sopravvissuti al genocidio in fuga dall’impero ottomano, come zia Shaké Terzian, rifugiata con la famiglia in Etiopia. Ma la valigia che portai con me era un disastro. Avevo vestitini leggeri (poco adatti al clima tedesco), un solo maglione e un sacco di libri, e mi accorsi con raccapriccio che all’ultimo momento avevo lasciato a casa la macchinetta del caffè nuovissima, con le pastiglie di “Meta” per farla funzionare, che papà mi aveva solennemente regalato come viatico. Quindi, niente caffè italiano, solo tè leggero e insapore... Della mia compagna di stanza non ricordo niente, tranne che era sgradevole e musona, ma se ne andò dopo pochi giorni abbandonando il corso – e io rimasi da sola, e felice di esserlo. Ma feci bellissime amicizie.
Eravamo tutti innamorati dell’idea di Europa. Avevamo seguito lezioni e dibattiti; i grandi vecchi – il francese, il tedesco, l’italiano - che in profondo accordo reciproco stavano progettando la nascita dell’Europa unita li sentivamo vicini. Portavamo tutti la spilletta « Europa libera e unita» (che ora giace in una scatola di vecchie memorie in un cassetto che non apro mai), e ci sentivamo – forse ingenuamente ma con molta fermezza – legati fra noi, amici: tre italiani, due francesi, una spagnola, una norvegese e una tedesca dell’Est, di Francoforte sull’Oder, che subito dopo la guerra aveva vissuto per un anno in un vagone ferroviario abbandonato. C’erano anche, ma li ricordo un po’ in disparte, una stangona americana della Virginia coi capelli biondissimi e un inglese piccolotto e moro, Tony Lloyd, che poi divenne presidente degli studenti del college; e un giovane fisico tedesco, bell’uomo sui trent’anni, che abitava da solo nella stanza più bella, era già laureato, ci guardava con ironica benevolenza e ogni tanto invitava una delle ragazze a bere un cognac. Nessuno di noi sapeva bene il tedesco, quindi ci arrangiavamo con entusiasmo e molto divertimento. Le lezioni vere e proprie si tenevano di mattina; nel pomeriggio si facevano varie cose: un po’ di sport (tennis e ping-pong soprattutto); si ascoltava musica su dischi come un autentico concerto, con un preciso programma che veniva distribuito la mattina, due tempi e l’intervallo per il tè; o si faceva conversazione in tedesco (in teoria: ma siccome nessuno di noi lo parlava correntemente, e non c’erano sorveglianti, ci si fiondava subito nella nostra privata babele di linguaggi). Il venerdì si partiva in pullman per “la gita”, con thermos e panini: ci portarono a visitare antiche abbazie e la famosa muraglia di filo spinato che divideva le due Germanie. Così restammo parecchio ignoranti, ma costruimmo solide e in molti casi durevoli e bellissime relazioni.
A diciott’anni, io sapevo pochissimo di musica, nonostante le faticose lezioni di piano che avevo seguito per un po’ con scarsissimo interesse. Ero andata a qualche concerto, ma mi ero annoiata; non capivo la lingua dei suoni, e non mi mancava; però mi era sempre piaciuto, al mare, cantare in coro con gli amici di spiaggia, sentire che la mia voce poteva seguire il filo delle parole musicate e darmi gioia. Così, non frequentavo i concerti del corso, preferivo leggere o chiacchierare nella grande sala davanti al maestoso caminetto. Ma in un pomeriggio uggioso, plumbeo di pioggia, Bruno, uno dei due ragazzi italiani (quello simpatico), mi invitò ad andarci con lui. Come fissati in una vecchia foto, ricordo esattamente che eravamo seduti – otto o dieci persone – in due file di sedie davanti al giradischi, in silenzio. La persona incaricata fece partire il disco. Ma poco dopo l’inizio io dissi qualcosa, e tutti mi guardarono con disapprovazione. Bruno mi strinse la mano, come per avvertirmi di tacere, e non la lasciò più. Era il concerto per violino e orchestra di Beethoven: e improvvisamente – poco dopo l’inizio – un calore mi invase, come serpeggiando per tutto il corpo, fino ad arrivare alla mente, e il cuore mi si riempì di una gioia selvaggia. Mi pareva di essere pronta a cavalcare nel vento di qualche impresa gloriosa, di avere il cuore colmo di una forza che mi passava attraverso – ed era la mia, ma molto più importante di me: rendeva preziosa ogni realtà che i miei sensi percepivano, la sedia su cui ero seduta, la mano calda di Bruno, i visi intorno a me, la finestra rigata di pioggia nel crepuscolo incipiente. Nella mia innocente ignoranza tuttavia a un certo punto mi accorsi che il violino adesso parlava da solo, come un ago sottile che mi frugava nel cuore con sapienza e con gioia, mentre l’orchestra echeggiava sullo sfondo con potenza e dolcezza.
Mi strinsi a Bruno, che mi baciò con altrettanta gioia, come seguendo la musica. Eravamo seduti dietro, intrecciammo entrambe le mani e ci baciammo di nuovo a lungo con entusiasmo, mentre il violino continuava a saltellare in ogni angolo del nostro essere, isolando entrambi in un intenso, caldo senso di vicinanza del cuore e di appartenenza. Fu una bellissima scoperta, ma non durò a lungo. La fine di agosto si avvicinava e mancavano pochi giorni alla fine del corso. Bruno e io cercavamo ogni occasione per stare vicini, baciarci, parlare, raccontarci l’un l’altro, prometterci mille cose. Ma io volevo restare in Germania fino alla fine del semestre, seguire lezioni all’università, imparare davvero la lingua; lui doveva frequentare il secondo anno di Medicina a Milano. Ci saremmo scritti molto, ce lo promettemmo seriamente: io, gli dissi, mi sarei sentita molto sola in quei mesi. Ma sapevamo già, in fondo, che la nostra era una breve, bella storia affettuosa: nel nostro futuro l’altro non c’era.
Tornai in Italia per Natale, piena di voglia di vivere e di studiare l’archeologia. Molte lettere mi ero scambiata con Bruno; a un certo punto poi smettemmo senza pensarci. Ma la porta chiusa della musica mi si era aperta per sempre.
L'autrice
Scrittrice sensibile e coinvolgente, Antonia Arslan è custode e narratrice della memoria del popolo armeno, della quale lei – italianissima di Padova, dov’è nata nel 1938 – è figlia per parte di padre. Docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, Arslan si è fatta conoscere dal grande pubblico con il suo capolavoro «La masseria delle allodole» (2004), pluripremiato, dedicato a un gruppo di armeni vittime del genocidio perpetrato dai turchi. Il libro è stato trasposto in un film dai fratelli Taviani. Nel 2015 con «Il rumore delle perle di legno» la scrittrice è tornata sul genocidio armeno attingendo ai suoi ricordi di famiglia. La questione armena è centrale anche nella sua opera di saggista (tra gli altri, «Metz Yeghèrn. Il genocidio degli armeni»). Firma di Avvenire, i suoi articoli impreziosiscono il mensile «Luoghi dell’Infinito».
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