Basta parlare di «sfaticati»
martedì 2 agosto 2022

I dati Istat sull’occupazione a giugno segnalano un trend decisamente positivo, ma soprattutto fanno giustizia di alcuni luoghi comuni, lasciando intravedere indicazioni importanti per i partiti alla prova delle elezioni.

La rilevazione più importante è certamente quella che riguarda il tasso di occupazione, arrivato al 60,1%, che segna addirittura un record dal 1977, da quando cioè esistono le serie storiche dell’Istituto di statistica, con un aumento di occupati, in termini assoluti, di 86mila unità in un mese, 400mila in un anno, oltre la soglia simbolo dei 23 milioni di occupati. È vero, seguendo le regole comuni a tutta Europa, l’Istat classifica come occupato chiunque abbia lavorato percependo una retribuzione almeno un’ora nella settimana precedente la rilevazione. E dunque non è così "difficile" risultare occupato anche se in maniera molto discontinua e precaria. Tuttavia, questa volta si segnala in particolare l’aumento degli occupati a tempo indeterminato, in particolare nella fascia 24-35 anni, anche per effetto del ritorno in attività di molti dalla cassa integrazione (oltre i tre mesi, i lavoratori sospesi vengono classificati tra gli "inattivi"). E, d’altrocanto, i dati di ieri vanno letti in combinazione con quelli relativi alla stima del Pil del secondo trimestre, pubblicati venerdì scorso, che segnalavano una discreta crescita, pari all’1%, addirittura migliore rispetto a quella dei nostri partner-competitori europei. Anche in questo caso, senza farsi eccessive illusioni visto che veniamo da un ventennio di bassa crescita e ancora dobbiamo recuperare il benessere precedente alla crisi finanziaria del 2008, si può però dire che la prima metà di quest’anno il rimbalzo c’è stato e si sono concretizzate alcune condizioni favorevoli – fondi Pnrr e aiuti, prestigio internazionale del governo Draghi, ripresa post-Covid delle attività – che hanno favorito la crescita tanto dell’industria quanto dei servizi. E, di conseguenza, fatto ripartire il mercato del lavoro. In maniera anche "impetuosa" e inefficace come ha dimostrato la ricerca spasmodica di camerieri e altre figure nel terziario che in parte non sono stati reperiti nonostante sia rimasto consistente il numero di contratti stagionali.

Il primo insegnamento che viene da questi dati, dunque, è che sono sempre l’attività economica, gli investimenti pubblici e privati, la fiducia nel futuro il vero motore dell’occupazione, non l’azione legislativa. Anzi, meno frequentemente si modificano le regole e più fluido resta l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Perfino gli incentivi sono da maneggiare con grande cura, perché anche quando innegabilmente portano a un incremento dei posti di lavoro in determinati settori – pensiamo oggi all’edilizia con il superbonus – rischiano poi di avere effetti distorsivi sulla struttura e la composizione dell’occupazione e dell’economia. La seconda "lezione" dei dati Istat – che segnalano anche un calo degli inattivi di 91mila persone nel mese di giugno – è quella di sfatare i due luoghi comuni dei "giovani che non hanno voglia di lavorare" e del "Reddito di cittadinanza che fa stare i ragazzi sul divano" anziché cercare un’occupazione. La quota di giovani tra chi fa domanda del Rdc non supera infatti il 3% e i "ragazzi" – se così si possono definire donne e uomini fino a 35 anni – più semplicemente rifiutano occupazioni che non garantiscono salari decenti e orari "vivibili", con una diversa scala di priorità rispetto a quella di generazioni precedenti.

Chi, dunque, come i partiti si appresta a competere per il voto degli italiani farebbe bene a puntare non su slogan tanto facili quanto vuoti, ma su programmi che offrano possibilità concrete ai giovani di migliorare la loro istruzione e 'inventare' nuove imprese e lavori; fissino regole minime universali rafforzando al massimo, invece, controlli e repressione di lavoro nero e sfruttamento; migliorino le politiche attive per chi resta indietro; scongiurino la "fuga" all'estero come unica via per fare ricerca o avere un lavoro di qualità. La si faccia finita, insomma, di chiamarli – di chiamare gli altri – 'sfaticati'. E soprattutto, ci si impegni per favorire concretamente la possibilità per i giovani di diventare autonomi e di 'fare famiglia'. Perché il dato davvero drammatico per il mercato del lavoro è che – con la crisi demografica in atto – tra non molto tempo a creare difficoltà alle attività economiche non sarà la volontà o meno dei giovani di lavorare, ma che di ragazzi semplicemente non ce ne saranno più.

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