mercoledì 7 luglio 2010
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Un primo effetto – quasi non ci speravamo – è andato immediatamente all’attivo, con l’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI. Parlare dell’amore esclusivamente come di un sentimento, senza immaginarlo insieme come un pensiero e come un lavoro, dopo questa enciclica è diventato oggettivamente difficile. Gli sviluppi verranno (è un lavoro che economia e teologia non fanno da troppo tempo). Intanto però, a distanza di un solo anno, l’imbarazzo lo sento: "dentro" e "fuori". Ed è molto confortevole.Il legame di agape con l’eros aveva avuto la sua audace istruzione nella prima enciclica (Deus caritas est). In termini di linguaggio cristiano, e di linguaggio in generale, un gesto di portata storica. In ogni caso, il successivo passaggio, dedicato appunto al profondo legame dell’affezione con il pensiero e il lavoro, non può essere equivocato con l’intenzione di rimuovere il pathos dell’affezione, in tutte le sue forme.Ma, appunto, è il legame con il pensiero e il lavoro quello che da tempo ci manca. È la retorica di un eterno io-tu, senza idee e senza mondo, che ci sta sfiancando. È la giuliva frequentazione di un amore pieno di tutte le passioni possibili, eccetto quella per la verità – alla quale crediamo e speriamo di essere destinati – che ci riduce allo stato gassoso. È la globalizzazione dell’utile delle opere senza affetti, e senza riguardi per la giustizia e per il bene comune, che ha fermato la storia. Libertà di mercanteggiare ogni cosa, che fa il paio con la commercializzazione del piacere senza generazione e senza comunità, senza operosità partecipata, né sacrificio condiviso. Terreno di coltura per l’ossessione sperimentale dell’amore di sé, via all’efferatezza del godimento per futili motivi. Amore senza idee, senza invenzione, senza entusiasmo per obiettivi umani di alto profilo, senza rigore dell’autodisciplina, senza felicità della donazione. Amore di sé, senza verità condivisa. Nel mito, Narciso affoga nella sua immagine (già, "l’immagine"!). Nella realtà, fa affogare noi e i figli che mettiamo al mondo. Non sentivamo da tempo una parola così netta nel riportare la "logica dell’amore" sul suo asse, indicando alla Chiesa – e a tutti, nel momento presente: siamo al debito di ossigeno, non facciamo i difficili – la "cosa necessaria". L’enciclica non si tira indietro dall’impegno di articolare concretamente l’urgenza di questo mutamento, che chiede un colpo d’ala in rotta di collisione con l’erotica e la mistica neo-romantica dell’amore (sacro o profano che sia). Il "luogo" del suo esercizio è la società occidentale odierna: e precisamente, il patto culturale fra economia del godimento e dissipazione dell’amore che, dalle nostre contrade, fa il giro del mondo. Le crepe del capitalismo finanziario, le faglie di corruzione della politica, il disorientamento delle giovani generazioni, l’inaridimento dei tratti essenziali della convivenza, l’esaltazione del "gene egoista", che indicherebbe l’ideale, e l’irrisione della "civile compassione" che indebolirebbe la specie, sono i sintomi di una intossicazione che va affrontata seriamente. L’amore senza pensiero e senza lavoro non è un rimedio: è la malattia. Ma trarne pretesto per chiudere con le profonde verità dell’amore, che il Vangelo iscrive nell’intimità dell’essenza divina e del suo gesto creatore, è cinismo contro l’umanità: che non va più tollerato. Chi ha orecchi per intendere, ascolti la parola che ci ha ammonito. Il futuro ricomincia da qui. E deve ricominciare adesso.
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