venerdì 27 dicembre 2019
A margine del caso Popolare di Bari, una lettura delle vere finalità di uno strumento nato non per fare utile. I problemi maggiori vengono dal lento scivolamento verso forme organizzative ibride
Doriano Solinas, opere

Doriano Solinas, opere

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Il tanto parlare che in questi giorni si fa in materia di crisi bancarie, soprattutto a causa della crisi della Popolare di Bari, induce una sensazione paradossale perché crea sfiducia verso istituzioni aventi come mission primaria proprio quella di generare fiducia.

La banca è un ponte lanciato sopra una valle nebbiosa: da una parte le esigenze dei risparmiatori e dall’altra quella degli investitori. Il ponte rappresenta sempre un costo, tanto più elevato quanto più arduo è passaggio, ma deve dare in cambio quella sensazione di sicurezza che si ottiene quando ci si dota, pagando il giusto premio, di una copertura assicurativa adeguata.

La valle nebbiosa, come si sa, è in mercato finanziario, da sempre, per lo meno da noi, frammentato e sconnesso, ed il banchiere svolge un ruolo squisitamente sociale, sempre di interesse pubblico anche quando è mosso da una logica imprenditoriale privata. Dovrebbe venire spontanea quindi la deduzione che la banca cooperativa, quella cioè il cui fine primario non è la remunerazione degli azionisti, ma la soddisfazione della clientela, si possa considerare l’intermediario migliore, non dovendo distribuire utili o dovendone distribuire in misura molto limitata.

Almeno in linea di principio allora, non si capisce perché, da molti dei commenti in merito alle drammatiche vicende che hanno interessato ultimamente alcune Popolari, debba trasparire, in modo neppur troppo larvato, una censura dell’istituto della cooperazione di credito 'in sé'. Al contrario, a nostro parere, i problemi maggiori sono sempre venuti e continuano a venire non tanto dalla struttura cooperativa 'in sé', ma dal più o meno lento scivolamento verso forme gestionali e organizzative ibride, sempre più lontane dal modello originario.

La forma cooperativa ha peculiarità sue proprie: l’omologazione con le imprese capitalistiche è possibile solo in minima parte. I motivi non sono di difficile comprensione: le economie di scala sono perseguibili solo in parte, la capitalizzazione dell’impresa risulta operazione complessa e lenta, l’ampliamento delle attività esige la messa in atto di strumenti particolari. Anche le forme di controllo non possono essere le stesse esercitabili nei confronti delle società di capitale. A questo riguardo l’ibridazione più deleteria può essere quella di una leadership esercitata con le stesse modalità di un azionista di maggioranza, da parte di chi in modo scorretto (e senza rischiare un briciolo di capitale personale) riesce a mantenere col ricatto o con l’inganno il controllo della compagine sociale. Questo tipo di deviazione può essere evitata solo da una proficua vigilanza cooperativa.

Tale tipologia di rischi è presente da sempre nelle cooperative di credito: già Luigi Luzzatti, padre nobile delle Popolari italiane, invitava a perseguire l’efficienza non seguendo le orme delle im- prese di capitale, ma ricorrendo all’anima delle imprese cooperative: l’associazionismo. Associazione di persone sono le singole aziende, associazione di banche deve essere il gruppo nel suo insieme. Non un gruppo bancario nel senso usuale del termine, ma un gruppo cooperativo fatto di singolarità autonome coordinate tra loro, un ponte, per usare la metafora di apertura, di più complessa fattura, ma capace di creare efficienza senza tradire l’identità.

Solo dall’interno di una associazione condivisa può essere esercitata la vigilanza cooperativa. Tutto ciò Luigi Luzzatti, ma anche Giuseppe Toniolo e Livio Tovini, cercarono di proporre in tempi che potremmo considerare lontani, se non fossero assai somiglianti all’oggi per temi e problemi sul tappeto. Una prospezione di lungo periodo, per chi è ormai assuefatto a una cultura dell’immediato, è sempre utile. Sulla spinta della crisi finanziaria del 1907 (straordinariamente simile per genesi ed effetti a quella del 2008) vennero avanzate le prime proposte di regolazione delle istituzioni creditizie. Le prime vittime sacrificali, stando ai progetti in campo, sarebbero state le banche cooperative, del tutto assimilate alle società di capitali.

La risposta fu in un tentativo di autoregolazione, purtroppo in gran parte inattuato, così concepito: tenendo ben salda la barra identitaria andavano create strutture condivise di secondo grado, per mettere in campo un vero sistema interconnesso di uguali, nel quale alla competizione avrebbe dovuto sostituirsi la collaborazione, alla conflittualità la concertazione. La vigilanza cooperativa avrebbe avuto un ruolo fondamentale. In questo modo le banche avrebbero potuto continuare ad operare nel modo loro proprio, mentre sarebbe stata la forza del gruppo a svolgere una funzione di garanzia nei confronti di terzi.

Qualcosa di molto simile, in definitiva, a quanto oggi stanno tentando di fare con una coraggiosa quanto necessaria autoriforma le ex casse rurali oggi BCC. Sopra ogni cosa stava la piena consapevolezza identitaria e la volontà associativa che, se trascurate, avrebbero condannato la banca ad affrontare, senza paraventi adeguati, le intemperanze del mercato. L’editoriale che il 1 gennaio 1913 Luigi Luzzatti affidava al periodico 'Credito e cooperazione' esprimeva in modo magistrale questi concetti; merita di essere qui riproposto integralmente come augurio di buon anno a chi oggi abbia intenzione di esercitare il credito cooperativo:

«L’ augurio pel nuovo anno alle nostre mutualità di credito è espresso con parola fida, ma severa: è un augurio di raccoglimento inteso al fine di una revisione spontanea di tutte le operazioni finanziarie ed economiche, dominata dalla coscienza della grande responsabilità morale delle istituzioni cooperative. Esse non furono immaginate dai loro iniziatori per procurare ai soci dividendi straordinari o per concentrare il credito su poche teste privilegiate, ma per combattere l’usura nelle città e nelle campagne, per distribuire equamente i fidi, cominciando dai più miseri, per dare asilo inviolabile ai risparmi cercanti la sicurezza più che le alte rimunerazioni, per tenersi pronte a rimborsarli, segnatamente nei tempi difficili. Non è nella lieta fortuna, ma nei momenti di crisi che si deve provare la solidità delle nostre Banche popolari; le quali più si tengono fedeli a questi aurei precetti meglio sanno uscire illese e forti dalle bufere... Questo è l’esame di coscienza che raccomandiamo vivamente e austeramente, oggi più che nel passato, per le torbidezze della politica estera che hanno tanta influenza sulle correnti monetarie internazionali. Un atto o una parola imprudente di uno dei potenti della terra può irradiar la sfiducia nel più modesto istituto del più umile villaggio del mondo! Pertanto bisogna tener asciutte le polveri; il che, tradotto in atti bancari, significa dar piccoli dividendi anche se si potesse distribuirne di maggiori, aver una cassa abbondante e pronta a rimborsare, moderar tutte le operazioni particolarmente quelle non squisitamente garantite o impegnanti troppe grosse somme, schivar assolutamente i nuovi affari che abbiano sapore di immobilità. Auguro ai nostri amministratori e ai nostri direttori il coraggio di questo limpido esame di coscienza e di queste opere riparatrici e allora, come è avvenuto in casi somiglianti pel passato, le difficoltà europee che si riverberano anche in Italia, il giorno in cui scompaiano e ritorni il sereno, rinforzeranno anche più il credito meritato dalle nostre associazioni bancarie. Le quali, come le forti individua-lità, si rinvigoriscono nelle asprezze della vita, si indeboliscono nei giorni lieti della improvvida spensieratezza. E allora che si moltiplicano le immobilità, che si accreditano le fabbriche e si compiono altri atti repugnanti all’indole della cooperazione. Ma il saluto austero, è il saluto della speranza e dell’affetto, poiché, come diceva un grande poeta latino: l’amore è composto di vigilanti affanni».

Cent’anni fa... oggi!

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