giovedì 16 ottobre 2014
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Nel dibattito sulle famiglia, che papa Francesco ha voluto ampio e franco, l’attenzione è stata monopolizzata dal problema dei divorziati risposati. Esistono però altre situazioni, in parte già affrontate con sagge scelte pastorali, in parte ancora poco studiate. Le parrocchie dimostrano comprensione per le giovani coppie che convivono ma hanno in programma il matrimonio religioso. Anche i vescovi sono disponibili e accoglienti nell’esame che loro compete quando sia stato già celebrato un matrimonio civile e non religioso. A volte la convivenza si prolunga e così diventa abbastanza frequente, nelle nostre chiese, la celebrazione di un matrimonio assieme al battesimo dell’ultimo arrivato in famiglia. Ma esistono anche casi diversi.Ci sono ragazzi che non hanno completato il percorso della formazione cristiana. Hanno iniziato la convivenza, quasi sempre poi sancita civilmente, perché “senza la cresima” non ci si poteva sposare in chiesa. Altre volte una delle due parti – in genere l’uomo – era irrimediabilmente lontana dalla fede e non è stata informata sul rispetto delle libertà di coscienza, che la Chiese attua attraverso i matrimoni “misti”. La scelta della parte credente, inutile nasconderlo, genera delusione e rammarico nei preti e negli educatori. Anche perché chi è cristianamente formato, sa bene che non potrà più esercitare alcuni diritti legati al Battesimo, come la partecipazione all’Eucaristia e il compito di padrino o madrina. Ma poi il tempo passa, l’unione resta solida, viene chiesto il Battesimo per i figli e se ne accettano le condizioni poste della Chiesa. Il momento più duro è quando i bambini vengono ammessi alla Comunione e si deve ricordare alle mamme (ma raramente è necessario) che ne sono escluse. Se devo giudicare dal mio campo di osservazione, queste situazioni sono molto più numerose di quelle dei divorziati risposati. A questo punto mi chiedo se non è possibile applicare a tanti di questi casi il rimedio che è già stato previsto dalla prassi costante della Chiesa e riaffermato dall’ultimo Codice di diritto canonico. Si tratta di quella che viene chiamata “sanazione in radice”.Il Codice del 1983 prevede un’ampia varietà di applicazioni, sottoposte di norma al giudizio della Santa Sede. All’epoca, probabilmente, si prevedevano rari casi e tutti – se interpreto bene – dipendenti dalla iniziativa dei diretti interessati: mogli che hanno la necessità di recuperare la propria “agibilità” cristiana all’insaputa dei mariti ostili o figli affettuosi che vogliono regolarizzare la situazione di genitori ormai inconsapevoli (casi ambedue previsti dal canone 1164). Oggi, i numerosi mariti che non vogliono sottoporsi alle “forme” della Chiesa ma accettano il Battesimo dei figli e la loro istruzione cristiana, sono di solito felici di poter consentire alle mogli credenti (di cui hanno apprezzano fedeltà e dedizione) il recupero di una piena vita di fede. È ovvio che, nel rispetto di una fede ferita e delle umiliazioni che sono seguite, sono i Pastori che devono avvicinarsi alla realtà di queste famiglie, con la mediazione dei parroci e dei loro collaboratori. A me sembra che si realizzi anche in questo modo quel dovere della Chiesa di chinarsi sulle sofferenze e sugli errori dei suoi figli, su cui tanto insiste papa Francesco.I parroci attendono solo di conoscere gli impegni che il Papa e i Vescovi vorranno loro affidare, anche su questo particolare problema, per un migliore servizio ai loro popoli.
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