martedì 14 febbraio 2012
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I conti non tornano. E anche se tornassero, non basterebbe. Il Parlamento greco, in un’Atene in fiamme, ha varato un nuovo pia­no di austerity. Definirlo "draconiano", dato il contesto, non è retorico: rasoiate a salari mi­nimi, pensioni e dipendenti pubblici (150mi­la in meno in tre anni); tagli a farmaci e ospe­dali. In cambio, il progetto di accordo tra la Grecia e i suoi creditori internazionali preve­de il via libera al secondo salvataggio da 130 miliardi di euro, con la possibilità di usufrui­re di 35 miliardi di prestiti dal fondo tempo­raneo salva-Stati Efsf. Una boccata d’ossige­no finanziario indispensabile per onorare quanto meno il rimborso dei titoli di Stato in scadenza a marzo ed evitare il crac. Ma il Paese è già allo stremo. E misure così au­stere di contenimento della spesa pubblica a­vranno inevitabilmente effetti depressivi. La Grecia è condannata alla miseria per i prossi­mi dieci anni. I conti non tornano soprattut­to perché la crisi di Atene si sarebbe potuta ri­solvere con una manciata di miliardi tre anni fa. A dire 'no', allora, furono Francia e Ger­mania. Le banche francesi e tedesche aveva­no in portafoglio due terzi del debito elleni­co. E lo avevano in tasca perché quei titoli ren­devano bene e gonfiavano i bilanci. Esplosa la bomba, sarebbe stato sufficiente che i due Paesi accettassero subito la ristrutturazione, con una perdita per le banche prestatrici nel­l’ordine del 20%. Poche decine di miliardi. Ma Berlino e Parigi hanno rifiutato, vendendo al contempo i bond greci per ripulire i bilanci. A intervenire sono stati, allora, l’Unione Euro­pea e il Fondo monetario con 105 miliardi. La famosa 'prima tranche di aiuti', a un tasso d’interesse doppio rispetto a quello medio eu­ropeo. Dopo aver naturalmente preteso una manovra di rigore che ha provocato un crol­lo del Pil nell’ordine del 6%. Solo negli ultimi sei mesi sono fallite 60mila imprese, a dicem­bre la produzione è scivolata del 15% e la di­soccupazione ha sfiorato il 21%. Nel frattempo, però, mentre non ci rimette­vano mezzo euro per le loro banche, tedeschi e francesi, in cambio degli aiuti, hanno con­tinuato a vendere armi ad Atene. Quest’anno la Grecia prevede una spesa militare superio­re ai 7 miliardi, il 3% del Pil: proporzioni 'a­mericane' (l’Italia è allo 0,9%). I tedeschi so­no i primi fornitori europei, secondi in asso­luto dopo gli Usa. Vendita di armi in cambio degli aiuti, così finendo per alimentare proprio quella spesa pubblica che ha gonfiato il debi­to e sulla quale ora si pretendono tagli draco­niani, ma a pensioni e salari. La denuncia è ar­rivata dai giornali tedeschi. Qualcuno conti­nua a chiamarla Realpolitik. Ma anche se i conti tornassero, si diceva, di certo non basterebbe. Scongiurato il default di marzo, è comunque necessario potenzia­re il fondo salva-Stati. Proprio per conce­dere più tempo alla Grecia. Ancora una volta, da Berlino arriva un nein. Non ci si fida delle pro­messe ateniesi, più volte di­sattese. Si considera un «az­zardo morale» accordare trop­po credito a chi ha più volte «truccato le car­te ». E la Grecia, è vero, lo ha fatto. La Germa­nia, invece, è abituata a rispettare gli impe­gni. E giustamente pretende che a farlo siano anche agli altri partner della Ue. Ma se se og­gi c’è una casa comune europea, è proprio perché alla Germania è stato "dato credito". E insieme al credito, il giusto tempo per risol­levarsi. Anche la Germania, sessant’anni fa, è stata "salvata". Nel 1953 Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia, Italia, Grecia e gli altri firmatari del London Debt Agreement accordarono al can­celliere Konrad Adenauer una riduzione del 50% sul debito della Repubblica Federale, all’incirca un 70% di alleggerimento per le scadenze a lungo termine. Con una mora­toria per i pagamenti degli interessi. Dena­ro e tempo per ricostruire l’economia, no­nostante i malumori della Gran Bretagna. A­denauer riuscì in questo modo a risollevare una Germania in ginocchio e, insieme a Schuman e De Gasperi, a far nascere l’Euro­pa comunitaria. Non aveva truccato i bilan­ci, è vero. Ma ebbe anche il meritato credito e il giusto tempo. Non era Realpolitik, ma Grande Politica. Che guardava al futuro e – insieme ai conti – all’edificazione del bene comune. C’è di nuovo bisogno, oggi, su Ate­ne, di quello sguardo lungo.
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