mercoledì 21 gennaio 2015
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Non è un bel giorno per la democrazia economica del nostro Paese. Anche se abbiamo rischiato di peggio perché, a quanto è dato di capire, nel progetto originario si parlava di un intervento su soggetti importanti del sistema bancario italiano attraverso l’abolizione del voto capitario (una–persona–un–voto) in tutte le Banche Popolari e di Credito cooperativo. Il governo ha invece stabilito di abolirlo solo per le 10 Popolari – quotate o meno in Borsa – al di sopra degli 8 miliardi di attivo, “salvando” quindi le altre Popolari e tutte le Bcc. Quanto è stato deciso resta, comunque, un fatto molto grave. Semplificando, per i lettori: una comunità raccoglie il proprio risparmio dandosi la regola di usarlo per servire soci, clienti e imprese del proprio territorio, utilizzando come modello di rappresentanza alle assemblee quello di una–persona–un–voto (e non di voto proporzionale alla quota di capitale versato). La banca cresce e ha successo e, beninteso, compete sul territorio con banche organizzate come società per azioni, dove vige invece la regola del voto proporzionale alla quota di capitale (ovvero se qualcuno arriva, magari da chissà dove, con una montagna di soldi può prendersi tutto). I cittadini, finora, “votando col portafoglio” avevano potuto scegliere di versare il loro capitale, aprire conti correnti, fare prestiti dove preferivano, ovvero in questo tipo di banca o nell’altra. Questa è democrazia, questo è mercato. Adesso però è arrivato un arbitro (lo Stato) che ha deciso di togliere un giocatore dal campo da gioco.Questa operazione viene condotta utilizzando una forma d’intervento, il decreto legge, che appare improprio (secondo la Costituzione dovrebbe essere usato solo per motivi di particolare urgenza, che qui non sussistono) e varando un provvedimento tenuto segreto fino all’ultimo e, dunque, sottratto al dibattito fino alla sua approvazione (con buona pace dello “stilnovo” di discutere preventivamente e pubblicamente le riforme per settimane…). Questa riforma sarà parte dell’enorme polpetta dell’Investment Compact che, a quanto si capisce, verrà fatta votare in Parlamento a colpi di fiducia. Si tratta di un atto profondamente illiberale: una specie di esproprio di risparmio. E somiglia maledettamente a una pietra tombale per l’età adulta dell’economia civile in finanza. Il messaggio in sostanza è questo: fate i bravi ragazzi, raccogliete – con gli ideali – soldi e risorse, amministratele bene, ma poi, se e quando il gioco si fa serio e diventate grandi, sappiate che la partita per voi finisce e il campo (e i soldi) passano ad altri.  Il paradosso è che chi arriva dopo, il “giocatore” a cui un arbitro miope e smemorato assegna la vittoria, chiudendo la partita, è quello che ha causato la crisi che stiamo tutti pagando, il troppo–grande–per–fallire (ma evidentemente grande il giusto per contare politicamente a livello internazionale e nazionale) che, usando l’approccio della massimizzazione del profitto, si trova nel paradosso di non aver più interesse nel fare credito che è attività dal basso rendimento e dall’alto rischio.Prendiamola con ironia. Da domani giornali e opinionisti che hanno cantato vittoria per le magnifiche sorti e progressive del «consolidamento bancario» si lamenteranno (senza riconoscere di essersi dati la zappa sui piedi) dicendo che il presidente della Bce Mario Draghi “dà i soldi alle banche, ma le banche non li danno al territorio”. Ovvio che da domani sarà ancor più così, perché gli sportelli della banca locale (che non erano tutti e sempre il paradiso in terra, sia chiaro) diventeranno molto facilmente propaggini di realtà internazionali che usano i “terminali di frontiera” per fini ben precisi e diversi: far cassa per gli azionisti e far risultato nella casa madre, in un modo o nell’altro (e questa logica, invece, è un vero inferno per i piccoli e i senza voce).Ci sembrano ridicoli alcuni tentativi di giustificare il fatto con la difficoltà di rovesciare gli assetti proprietari nelle banche con voto capitario (i modi per risolvere tali situazioni non mancano).Come se le grandi banche multinazionali fossero modelli di democrazia controllati da piccoli azionisti... Beninteso non vogliamo affatto demonizzare le grandi banche che sono parte naturale di un sistema e risultano essenziali per alcuni tipi di operazioni (anche se i loro servizi non sembrano più essere così graditi ai grandi gruppi se Sergio Marchionne, spazientito, ha deciso di farsi una banca, FCA Bank, tutta per sé). È solo che non si sentiva il bisogno di premiarle regalando loro il sangue, cioè il patrimonio, delle (ex) concorrenti Popolari. Forse il governo non si rende conto che la luna di miele coi territori e la società civile (già incrinata) rischia di finire qui. Il premier Renzi si è lamentato nelle ultime ore di aver avuto a che fare tutto il giorno con le proteste dei «banchieri democristiani». Beh, d’ora in avanti sarà più solo coi problemi della finanza più grande degli Stati. Auguri. L’economia civile è forte, e alla lunga noi crediamo comunque vincerà, perché è il futuro e porta con sé desideri e ideali dei cittadini. È il governo che ha perso oggi una grande occasione anche se per ora sembra non rendersene conto. In Parlamento c’è tempo e modo per rimediare.
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