L'anti-cooperazione di chiama Epa
venerdì 20 ottobre 2017

Nel suo discorso alla Fao, in occasione della giornata mondiale dell’alimentazione, papa Francesco ha chiesto se sia «troppo introdurre nel linguaggio della cooperazione internazionale la categoria dell’amore, declinata come gratuità, parità nel trattare, solidarietà, cultura del dono, fraternità, misericordia». Molti l’hanno presa solo come una provocazione, invece la questione andrebbe presa estremamente sul serio se vogliamo risolvere i gravi problemi che attanagliano il mondo, primo fra tutti quello della fame. Del resto abbiamo avuto un periodo, dagli anni Settanta agli anni Novanta del secolo scorso, in cui la 'cultura della gratuità' aveva trovato un suo spazio e il panorama era contrassegnato da accordi economici che prevedevano trattamenti differenziati in base alla forza economica dei vari Paesi e che avevano come obiettivo la difesa delle parti più deboli. Un esempio in tal senso erano gli Ica, acronimo di International Commodity Agreements, accordi siglati fra Paesi esportatori e Paesi importatori per garantire la stabilità dei prezzi delle materie prime, in particolare quelle agricole: caffè, cacao, juta, tè. Con grande sollievo per tutti, primi fra tutti i contadini che con la garanzia di prezzi stabili potevano programmare le proprie spese e i propri investimenti. Poi venne la follia neoliberista e gli Ica non vennero più rinnovati provocando, come effetto immediato, la caduta dei prezzi di tutte le materie prime. Milioni di famiglie finirono schiacciate sotto il peso dei debiti, la fame tornò a colpire i loro bimbi e non sapendo come sbarcare il lunario andarono ad aggiungersi ai milioni di senza terra che avevano cercato rifugio in città. Ancora oggi i prezzi sono determinati esclusivamente dalle forze di mercato e non rispondono più alle esigenze sociali ed economiche di chi popola la filiera produttiva, ma unicamente ai giochi speculativi della grande finanza.

La sbornia neoliberista è tutt’altro che passata e in totale controtendenza rispetto all’esortazione di papa Francesco, l’Unione Europea sta continuando a demolire quel po’ di cultura della solidarietà che aveva messo in atto nel secolo scorso. Lo dimostra il progetto che sta perseguendo rispetto alle relazioni economiche da intrattenere con le sue ex-colonie, così detti Paesi Acp perché appartenenti all’area dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico. Tenendo conto della debolezza dei paesi Acp, fin dal 1975 la Ue aveva siglato accordi economici che prevedevano trattamenti doganali di maggior favore nei loro confronti. Dazi molto bassi o nulli sui loro prodotti per favorire le esportazioni e dazi molto alti su quelli europei per non compromettere quelle magre economie. L’ultimo accordo siglato secondo questo spirito è quello di Cotonou che però scade nel 2020. E non volendolo rinnovare, da anni la Commissione Europea lavora ai fianchi dei governi Acp per ottenere un nuovo accordo battezzato Epa, Economic Partnership Agreement, ossia Accordo economico di partenariato, come se 'partenariato' stesse per 'amicizia', mentre sta per 'imboscata'. Il nuovo accordo che l’Europa vuole imporre ai Paesi Acp si basa, infatti, sul principio della parità di trattamento: ossia tariffe zero per i prodotti del Sud del mondo e tariffe zero per i prodotti europei. Il tutto sotto l’ipocrisia della reciprocità dimenticando, come si dice in 'Lettera a una professoressa', che «non c’è niente di più ingiusto che fare le parti uguali fra disuguali». Facile purtroppo prevedere, come avverte Vittorio Agnoletto, che «le conseguenze saranno drammatiche per i Paesi Acp: l’agricoltura europea (sorretta da 50 miliardi di euro all’anno) potrà svendere i propri prodotti sussidiati sui mercati dei Paesi impoveriti. (…) E l’Africa sarà ancora più strangolata e affamata in un momento in cui pagherà pesantemente i cambiamenti climatici». L’abbandono degli Epa: ecco un primo passo molto concreto per «mettere l’amore» nella cooperazione internazionale.

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