Anni di piombo prima sutura per l'ultima ferita aperta
giovedì 29 aprile 2021

Una decisione di «portata storica ». Così la guardasigilli Marta Cartabia ha commentato il sì della Francia a dieci richieste d’estradizione di ex brigatisti rossi e altri ex terroristi, condannati in via definitiva all’ergastolo o a pene severe per omicidi e attentati perpetrati negli anni di piombo, ma finora sfuggiti all’esecuzione della pena perché rifugiatisi Oltralpe. Una decisione che rimuove decenni di ostacoli al corso della giustizia per una vicenda che, osserva Cartabia, «è stata una ferita profonda» nella storia italiana. Analoga espressione, «una ferita ancora aperta», è stata usata dal presidente del Consiglio Mario Draghi, convinto che la memoria di quella barbarie sia viva nella coscienza degli italiani.

Dopo anni di indifferenza, c’è voluta dunque la tenacia degli investigatori italiani e la perseveranza della stessa ministra e del premier Draghi, sommate a quelle dei governi passati, per arare il terreno e infine ottenere dall’Eliseo un via libera che accantona quella chance di impunità inaugurata nel 1985 dal divieto di estradizione legato all’interpretazione della 'dottrina Mitterrand', dal nome del presidente socialista che oppose il muro del no per quei «rifugiati italiani» che, pur avendo preso parte ad azioni terroristiche, avevano iniziato una seconda fase della loro vita, integrandosi nella società francese.

Un muro fondato spesso su un pregiudizio fuorviante e sbagliato – come se quelle condanne nei tribunali italiani fossero state emesse in assenza di garanzie sul piano del diritto – che metteva di fatto in dubbio la legittimità di un sistema giudiziario, il nostro, che invece seppe sconfiggere la violenza degli opposti estremismi restando nell’alveo della democrazia. Quel no francese per oltre trent’anni ha generato amarezza nel cuore di padri, madri, mogli, fratelli, figli deprivati brutalmente dei propri cari e poi beffardamente costretti a subire ulteriori sofferenze – per dirla con Alfredo Bazoli, deputato dem e figlio della signora Giulietta, uccisa nella strage di Piazza della Loggia – perché «privati del senso di giustizia derivante dall’applicazione delle pene irrogate ai colpevoli».

Dal 1985, quel muro è stato superato di rado. Come nel 2002, con l’estradizione concessa per Paolo Persichetti o con quella approvata, l’anno seguente, per Cesare Battisti, che però riuscì a riparare in Brasile e poi in Bolivia, dove nel 2019 è stato arrestato. Ora arriva la decisione del presidente Emanuel Macron, anagraficamente affrancato da vecchi tic ideologici. Riguarda dieci ricercati (su un elenco ormai esiguo, fa sapere la polizia italiana), responsabili di fatti di sangue. Ed è tempestiva, perché arriva prima della prescrizione.

Qualcuno dirà che si tratta di giustizia tardiva, che si accanisce su uomini e donne coi capelli bianchi, con nuove famiglie, malati o fiaccati dall’età. Se umanamente può esser vero, non si può tuttavia ignorare come, a rallentare la macchina giudiziaria, abbiano contribuito i silenzi e le fughe dei ricercati (tre di loro ieri si sono resi irreperibili) e il già ricordato muro delle autorità francesi. Inoltre, non dovrebbe trattarsi di estradizioni-lampo: le procedure avverranno nel rispetto delle garanzie dei condannati, i cui legali avranno modo di formulare obiezioni ed eccezioni.

Ciò detto, la decisione dell’Eliseo apre un nuovo corso. E potrebbe contribuire a rendere meno dolorosa la lunga sutura delle ferite inferte da quegli atti di sangue. Una sutura che in anni recenti, con faticosi percorsi di riconciliazione personale e giustizia riparativa, alcuni familiari delle vittime hanno già provato ad avviare, in un dialogo doloroso e schietto coi carnefici. Altri hanno elaborato il lutto in un silenzio carico di pudore. Dice Paolo Galvaligi, figlio del generale dell’Arma Enrico, ucciso dalle Br: «Da parte mia, della mia famiglia, non ci sono mai stati sentimenti di vendetta, odio o rancore».

È chiaro, nessuna pena carceraria ridarà i propri cari a chi li ha persi. Ma forse si può sperare che il completamento dell’iter penale con l’esecuzione delle condanne consenta ai familiari, e al Paese intero, di iniziare davvero a voltare pagina, traslocando quelle vicende dalle cronache giudiziarie alla storia collettiva. 

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