giovedì 5 maggio 2016
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C’è un linguaggio del corpo al quale spesso dobbiamo semplicemente obbedire, per quanto impegno mettiamo nel silenziarlo. Accade quando un dolore di qualunque origine sale improvviso al cuore, serra la gola, fino a togliere il fiato. Non resterebbe da far altro, allora, che lasciarlo fluire, cedergli la parola, semplicemente ascoltarlo: piangere, finché non s’è placato. Ma quanto spesso, legati come siamo da infiniti lacci sociali e comprensibili pudori, o decisi a non voler cedere a quella che ci pare sia una debolezza o un lusso inopportuno, ricacciamo dentro quel rivolo di sofferenza convincendoci che è pericoloso dargli spazio. Si lascia che il dolore si sedimenti, e parliamo qui solo di quando è sottile, insistente come la pioggia, perché se si fa largo come un terremoto sotto l’urto improvviso della vita allora non c’è resistenza che tenga. Invece le lacrime ordinarie, quotidiane, anche solo intuite in una vibrazione profonda, ci chiedono udienza all’improvviso anche quando si mescolano al sereno stabile di una vita apparentemente senza scosse. È allora che capiamo che l’argine dovrebbe rompersi anche solo un poco, per evitare che il dolore sempre contenuto, rinominato, o scambiato per qualco-s’altro, lavori come un torrente carsico e consumi le difese fino a tracimare. È acqua di vita, invece, quella delle lacrime. E può bagnare la buona terra dove crescono sogni e progetti, speranze, relazioni, idee, la stessa fede, anche gli errori, irrigati così da una forza dolce che li trasforma da erba infestante a compagnia inseparabile dalla nostra fragile natura. Le lacrime umane accolte e poi asciugate, quelle che ciascuno porta dentro di sé in qualche luogo che crede dimenticato, o sempre a fior di occhi, diventano oggi protagoniste del Giubileo.  Il Papa le ha volute al centro della veglia che questa sera in San Pietro darà voce alle ferite che segnano la vita di tanti, di tutti: chi ha perso un figlio, chi il marito per un incidente sul lavoro, chi ha visto versare sangue di famiglia nei genocidi d’Africa o nelle rappresaglie mafiose, chi ha dovuto lasciare il proprio Paese incalzato dalla guerra o dalla persecuzione, chi non vede un senso nella propria vita, o ha patìto la lacerazione di un legame, la perdita del lavoro, la malattia o la disabilità sua o di un proprio caro... In una società che rimuove il dolore e fa sentire segnata a dito la persona che soffre, quasi il suo dolore fosse una zavorra che la rende inadatta a tenere il passo, le braccia che stasera apre il Papa a nome di tutta la Chiesa sono il segno che non c’è dolore del quale vergognarsi, che non possa trovare ascolto, e che anzi proprio quella fatica può portarci fuori dal vicolo cieco nel quale ci pareva di esserci impantanati. Allo stesso tempo, questa veglia si pone come uno dei gesti più originali del Giubileo, nel quale si coglie la creatività pastorale di Francesco, la sua fede imbevuta di tenerezza e umanità, un Vangelo spalancato ad accogliere ciascuno per nome partendo dal proprio percorso, qualunque prova abbia attraversato. Le lacrime secondo la logica della misericordia non sono lo stigma della sconfitta ma il segno di una prossimità attesa e sperata, l’invito al samaritano perché torni a fermarsi, e ancor prima a vedere, a toccare la ferita, ad asciugare quel viso rigato di acqua che sgorga dall’anima. Il Papa è il buon pastore nel quale rivive la voce di Isaia, che stasera risuonerà nella basilica vaticana («Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio»). La sua intuizione delle lacrime come materia prima della misericordia è il gesto disarmato e immensamente comunicativo di un padre che non detta condizioni e attende sulla Porta Santa chi si presenta spinto dal desiderio sempre inappagato della sua umanità. Allo stesso tempo, ci dice di non giudicare il malato per le sue piaghe, di non maledire chi è causa del nostro pianto («lasciamo a Dio coloro che ci hanno addolorato» dice Gregorio Nazianzeno nel brano al centro della veglia romana), di essere soltanto grati a Dio anche per le salite e le spine, «perché – spiega ancora il Padre della Chiesa – il soffrire divenga per tutti fonte di ricompensa» imparando a «sopportare serenamente». Perché il dolore non è la condanna di un destino avverso. È vero semmai – ci confida Francesco – che le nostre lacrime possono insegnarci la via di casa.
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