giovedì 24 ottobre 2019
Il dibattito sui 30 anni della riforma della giustizia penale. Carcere preventivo o durata dei processi, lo spirito di civiltà giuridica della riforma non si è ancora espresso in pieno
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Non tira aria di grandi celebrazioni per il trentennale del codice di procedura penale, entrato in vigore il 24 ottobre 1989: e lo attestano anche i bei contributi a un dibattito, di Paolo Borgna e Alessandro Bertoli, apparsi su questa pagine. Anzi, vi è un diffuso miscuglio di sensazioni di fallimento, tali da unire i contestatori ab imis di quella riforma e i delusi di ogni specie; e pure chi, come il sottoscritto, lavorò convintamente alla redazione di quel testo avverte l’esigenza di non limitarsi a un "però, è stato bello...". Trent’anni fa c’era innegabilmente un’attesa quasi messianica per un prodotto auspicato e salutato dai più come frutto del vento di libertà e democrazia ispiratore della Costituzione e come suggello della chiusura di una non breve stagione nella quale il precedente Codice Rocco era rimasto in vita anche dopo la caduta del regime fascista, seppur rabberciato e depurato dai più marcati tra i segni della dittatura, così come il suo "gemello" di diritto penale sostanziale (tuttora sopravvissuto, quest’ultimo).

Tra i princìpi ispiratori del Codice Vassalli spiccano la valorizzazione del contraddittorio tra parti processuali ad armi pari davanti a un giudice "terzo", come regola fondamentale per una corretta formazione delle decisioni giudiziali, e il riconoscimento "a tutto campo" della presunzione d’innocenza: non solo dunque quale traduzione dell’in dubio pro reo ma, anzitutto, quale fondamento del rifiuto di considerare "normale" la restrizione delle libertà dell’accusato durante lo svolgersi del procedimento. Espressivi di valori di indiscutibile civiltà del diritto, questi erano e sono princìpi ormai penetrati a fondo nella nostra cultura giuridica, teorica e pratica. Sin da subito ci si avvide però che né l’uno né l’altro potevano di fatto 'tenere' pienamente in concreto se non se ne fossero apprestati i necessari supporti di contesto, a rischio, altrimenti, dell’efficienza di funzionamento della giustizia, che pur era, a sua volta, tra gli obiettivi della codificazione.

Dal primo punto di vista venne a nuocere, più che a giovare, alla causa dell’autentico garantismo anche qualche eccesso di zelo garantistico: ad esempio, fece scalpore la sentenza di un giudice che ammise di aver dovuto assolvere un giovane (accusato di aver ucciso il padre) in quanto costretto a negare ogni rilievo alle precise dichiarazioni colpevoliste della madre, rese poco dopo aver assistito al tragico fatto e successivamente ritrattate per effetto di una resipiscenza palesemente omertosa e non spontanea. Esiziale fu però soprattutto la scarsità dell’impegno organizzativo e finanziario per il potenziamento e l’ammodernamento degli strumenti investigativi, indispensabile per non lasciare sguarniti i responsabili delle indagini particolarmente di fronte a difese agguerrite e fornite di risorse. Donde l’avvio a un’altalena di ulteriori riforme e controriforme (anche sulla spinta, tra l’altro, delle reazioni agli alti e bassi delle emergenze di tipo mafioso): e, tra i punti di scontro, fu proprio lo sforzo diretto a far recuperare a livello normativo agli inquirenti – e, in abbondanza, specialmente alla polizia – ciò che continuava a difettare sul piano delle risorse materiali.

Sotto il secondo profilo, l’irrisolto problema della durata dei processi, con la definitività delle sentenze procrastinata per anni e anni, ha perennemente alimentato la tentazione di attribuire in concreto alla carcerazione in attesa di giudizio un’anomala e incivile funzione di surrogatoria anticipazione della pena, senza che peraltro cessassero le scarcerazioni di persone anche altamente pericolose decorsi i termini massimi di detenzione che la legge è tenuta costituzionalmente a fissare (e che pur sono sempre stati di entità da capogiro): fenomeno, questo, capace di suscitare vero scandalo nell’opinione pubblica, non meno dei repentini ritorni 'sul luogo di lavoro' di pusher e scippatori, dopo arresti o fermi non 'convertiti' dai giudici in più stabili misure cautelari.

Brutta cosa in tutti i sensi è comunque, l’eccessiva durata dei processi, specialmente quando sotto l’incubo del loro protrarsi è l’innocente. Responsabilità in proposito vanno anche a un formalismo non del tutto estirpato neppure nella disciplina di strumenti come le notifiche degli atti. Ma tra i fattori con cui fare i conti ve n’è altresì un paio di quelli che si connettono a importanti garanzie e che però si prestano a dilatazioni contrarie a una buona gestione dei processi. Si tratta del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di un articolatissimo sistema di impugnazioni delle decisioni giudiziali.

Il primo principio è fissato in una norma costituzionale ad hoc e, anche nel nome dell’uguaglianza, ha potuto fare da scudo di pubblici ministeri contro le pretese di "chiusure d’occhio" su delitti di potenti e prepotenti; però, tra i suoi contraccolpi vi è pure stato quello di frenare i tentativi di ricondurre le infrazioni di più scarsa rilevanza nell’ambito di una giustizia meramente "riparativa" (vale a dire di quella che, concentrandosi sulla tutela delle vittime e sul risarcimento del danno sociale, eviti gli accanimenti di un panprocessualismo il quale contribuisce ad allungare anche i tempi dei giudizi che pur è sacrosanto celebrare). Sotto il secondo profilo, va segnalato il coesistere di due regole: una, a sua volta costituzionale, che assicura il diritto a ricorrere per cassazione contro ogni sentenza, e un’altra, di matrice internazionale, che porta a far assurgere a garanzia fondamentale quello che da noi è l’istituto dell’appello: cosicché l’ineccepibile diritto di contestare una condanna viene, pressoché automaticamente, a raddoppiarsi, anche là dove il valore della posta in gioco non lo meriterebbe in egual misura.

Meno efficaci del previsto si sono poi rivelati i vecchi e nuovi riti "alternativi" che avrebbero dovuto far sì che solo i casi più delicati andassero al dibattimento, con tutte le sue garanzie ma nondimeno con i suoi innegabili "costi" quanto a complessità e durata. Sovente riluttanti a servirsene sono imputati e difensori, persuasi di poter pervenire a risultati più vantaggiosi lasciando trascorrere il tempo che comporta il seguire la via ordinaria. Così si fa pressante – a opera di molti tra gli stessi magistrati – l’istanza di renderli maggiormente appetibili con ulteriori sconti di pena (già oggi non irrisori) a chi li sceglie e con l’allargamento della sfera dei reati di riferimento; ma è dubbio che si possa andare oltre certi limiti, specialmente nell’estensione del "patteggiamento", se non si vogliono lasciare altri segni negativi nell’opinione pubblica, con reazioni che sarebbe sbagliato bollare tutte come espressioni di "populismo penale".

Sull’insieme, poi, incombe il problema della prescrizione, la cui soluzione è oggi in balia di opposti estremismi, tra la "legge Bonafede", con il blocco assoluto della decorrenza dopo la sentenza di primo grado, e l’intransigenza con cui da altre parti si vuole annoverare quell’istituto addirittura tra i diritti processuali fondamentali, così da respingere ogni prospettiva di modifica al tradizionale modo di operare del meccanismo, a cominciare da quella di farne decorrere il calcolo non dalla data della commissione del reato (che può rimanere a lungo nascosto) ma da quella in cui la relativa notizia sia pervenuta ai potenziali inquirenti.

E così il non più nuovo codice continua a vivacchiare più che a esprimere appieno lo spirito di civiltà giuridica e di efficienza con cui venne concepito. E continuano i ritocchi e le proposte di ritocchi, talora definite addirittura "epocali" pur quando si palesano, oltreché estremamente controverse, del tutto settoriali e, almeno in parte, di corto respiro. Sarebbe già qualcosa se al riguardo la politica non si spingesse – come, a onor del vero, non si spinse quando fu progettato e scritto quel codice – a piegare gli interventi normativi alla tutela di interessi di parte o alla mera propaganda.

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