mercoledì 9 novembre 2011
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A dispetto di ogni strategia e di ogni alchimia diplomatica l’Iran dell’ayatollah Khamenei e di Ahmadinejad finirà presto o tardi per dotarsi di un arsenale nucleare. Questione di mesi, forse di un anno, un anno e mezzo, ma il percorso è comunque segnato: la marcia di avvicinamento alla bomba, iniziata molti anni fa, quando Teheran proclamava farisaicamente i propri scopi pacifici, è ormai quasi compiuta e nessuna potenza al mondo, nessun Consiglio di sicurezza, nessuna coalizione dei volenterosi ha mai fermato la corsa all’arma nucleare. Dopo Nagasaki e Hiroshima, l’Unione Sovietica ruppe il monopolio nucleare americano nel 1949, la Gran Bretagna ci arrivò tre anni dopo, la Francia nel 1960, la Cina nel 1964, ma il club atomico (originariamente riservato ai vincitori della Seconda guerra mondiale, membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu con diritto di veto) era destinato ad allargarsi: Israele (che mai l’ha ammesso), Sudafrica, India, Pakistan, per ultima la Corea del Nord. Poteva mancare l’Iran? No, non poteva: dopo la bomba sunnita – quella pakistana – arriva la bomba sciita a pareggiare i conti nel mondo islamico, ed è la stessa Aiea, l’agenzia internazionale per l’energia atomica, ad annunciarlo, pur senza fornire prove documentali inoppugnabili.I peggiori timori del mondo occidentale e dello Stato di Israele sembrerebbero dunque prendere forma: un Iran nucleare, con il suo formidabile arsenale missilistico a corto e medio raggio, sarebbe in grado trasportare testate atomiche ben oltre i confini israeliani. Il che porta acqua al mulino di quella non piccola porzione dell’opinione pubblica americana che aveva guardato con diffidenza la politica della mano tesa a Teheran inaugurata da Barack Obama e che riteneva – sono parole del suo rivale McCain, sconfitto alle elezioni del 2008 – che «peggio di un attacco all’Iran c’è solo un Iran dotato dell’arma atomica».Ma più ancora che a Washington è a Gerusalemme che il livello di ansia sale come febbre malarica. Israele – rivela il New York Times – può disporre di basi, armamenti, droni, batterie antimissile forniti dal Pentagono e installati in Arabia Saudita e negli emirati del Golfo per pianificare un attacco ai siti nucleari iraniani.Ma quale sarebbe il costo di un attacco israeliano all’Iran? Quale la ritorsione di Teheran? Sicuramente gli ayatollah mobiliterebbero il loro braccio armato libanese, il movimento Hezbollah che è strapieno di missili a corto raggio, dalla gittata sufficiente a raggiungere non solo Haifa e l’Alta Galilea, ma anche Tel Aviv. L’incendio si propagherebbe sicuramente anche a Gaza, dove la componente di Hamas e del Jihad finanziata da Teheran farebbe la sua parte aprendo un secondo fronte. In ogni caso la risposta iraniana sarebbe rovinosa. Non solo, mentre nel 1981 l’incursione dell’aviazione con la Stella di David sul reattore iracheno di Osirak ebbe successo perché si trattava di un unico obbiettivo scarsamente protetto, oggi il compito si presenta assai più difficile: troppe installazioni, troppi siti da colpire, troppi intercettori a far da guardia e scarse possibilità di un successo pieno. Gli stessi vertici del Mossad, dello Shin Bet e dell’Idf (le forze armate israeliane) cercano da giorni di dissuadere il premier da un’azione avventata.Alle complicazioni tattiche si assommano quelle diplomatiche: Mosca, Pechino e Parigi sono fermamente contrarie a un’azione militare da parte di Israele così come difficilmente voterebbero nuove sanzioni nei confronti di Teheran. Ma proprio questa ineluttabilità della corsa alla bomba sciita può – per uno dei frequenti paradossi della Storia – fare da stabilizzatore: conficcata come un minaccioso menhir nel cuore del Medio Oriente, finirà – è parere di molti – per diventare una sorta di replica in sedicesimo del deterrente nucleare che impedì il conflitto fra i due blocchi durante la guerra fredda.A una condizione: che all’equilibrio nucleare fra Iran (che rischia di "evolvere" verso forme di potere sempre più lontane dalla democrazia rappresentativa) e Israele (che almeno è una vera democrazia) corrisponda sempre l’equilibrio dei loro leader. E questo forse è il problema più difficile da affrontare.
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