martedì 8 settembre 2015
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Caro direttore, nelle ultime settimane lo scenario europeo in materia di immigrazione e asilo appare profondamente mutato. Alcuni fatti di cronaca – i settantuno corpi senza vita nel camion frigorifero e la foto del bambino siriano su una spiaggia turca – hanno sicuramente avuto un peso nella elaborazione delle nuove proposte da parte di Paesi europei. Prime fra tutte l’aumento delle quote di richiedenti asilo da ricollocare nei diversi Stati membri (160mila rispetto ai precedenti 32mila) e l’obbligatorietà della partecipazione al piano di distribuzione sul continente, pena il pagamento di una sanzione, destinato a un fondo per le spese dell’accoglienza. Un ruolo decisivo in questo cambio di rotta è stato svolto dalla Germania e dalla Francia. L’Italia, nonostante la sua posizione di Paese di frontiera, non è mai riuscita a dettare la linea, nemmeno quando ha presieduto il semestre europeo nel 2014. In quella circostanza, ha affidato tutte le proprie chance a una cauta attività negoziale e a prudenti iniziative. E tutto ciò si è rivelato drammaticamente inadeguato rispetto a fenomeni che – a ragione, per una volta – possono definirsi epocali. Fenomeni che se letti alla luce degli indicatori demografici, anche i più elementari, appaiono dirompenti. E addirittura esplosivi per Italia. L’Europa è il continente che sta invecchiando con più rapidità: nel 2050, il 34% dei cittadini europei avrà superato la soglia dei sessant’anni. E già ora, in Italia, un abitante su cinque si trova nella fascia oltre i sessantacinque. La previsione è che, entro 10 anni, supererà quella soglia un italiano su 4. In estrema sintesi, si può dire che quella italiana è una comunità nazionale in via di estinzione. Di conseguenza, com’è possibile parlare di politiche per l’immigrazione senza tener conto di questi dati strutturali? E com’è possibile ascoltare gli allarmi contro 'l’invasione', senza avvertire la tentazione di replicare: almeno davvero ci invadessero. Da qui, dalla constatazione di una decadenza in atto – demografica, economica, sociale e culturale – deriva la necessità politica di una strategia finalmente capace di mettere in discussione lo status quo.   E, invece, si è assistito a iniziative dei singoli Paesi, in direzioni non proprio convergenti. Gran Bretagna e Francia hanno firmato ad agosto un accordo a Calais per rafforzare le misure di controllo e sicurezza dell’Eurotunnel; la Germania ha deciso di farsi carico delle domande di asilo presentate dai profughi siriani, applicando in maniera 'creativa' il regolamento di Dublino; ma Londra si è limitata a prevedere il reinsediamento di quindicimila siriani. Il rischio è che l’Italia si trovi presa alla sprovvista, incapace di definire un proprio ruolo, costretta ancora una volta a una posizione subalterna. E, invece, per essere all’altezza di una situazione davvero eccezionale, dobbiamo far leva su uno dei principi costitutivi dell’Unione: quello della solidarietà tra gli Stati, che si manifesta concretamente come reciprocità e cooperazione. Nel momento in cui questo patto di solidarietà viene reiteratamente violato dai più, attraverso il rifiuto di contribuire alla soluzione di un problema, quale quello dell’immigrazione e dell’asilo, è l’intera architettura della comunità che viene messa in discussione. Ed è esattamente questo, che può legittimare la rivendicazione da parte dell’Italia di un ruolo centrale nella gestione della questione migratoria.   Per quanto riguarda gli interventi immediati, se l’obiettivo oggi perseguito nelle proposte dell’Agenda europea è una più equa ripartizione dei profughi, è condizione preliminare andare oltre il numero attualmente previsto di quanti rientrano nelle quote obbligatorie, rendendo flessibile questo sistema in rapporto all’ampiezza dei flussi. Il regolamento di Dublino, che ha gravato finora come una camicia di forza, va utilizzato in maniera più duttile, come premessa del suo superamento.  Innanzitutto, si può decidere di implementare tutti quegli strumenti che lo stesso Regolamento offre, a partire dal principio dell’unità familiare con l’utilizzo, il più ampio, dei ricongiungimenti. E con l’applicazione di alcune clausole già contemplate. La prima, quella di sovranità, cui ha fatto ricorso la Germania a favore dei profughi siriani, prevede che uno Stato membro possa sempre decidere di assumere la responsabilità di esaminare una richiesta di asilo presentata in un altro Stato. La seconda permette a qualsiasi Paese membro, pur non essendo competente dell’esame della domanda secondo i criteri ordinari, di diventarlo in considerazione di «ragioni umanitarie fondate in particolare su motivi familiari o culturali». Laddove si individuino esigenze tali da permettere al richiedente di poter realizzare il proprio progetto di vita in un altro Stato membro, questi meccanismi di mobilità interna all’Ue vanno attivati prioritariamente. È possibile, poi, sospendere alcuni automatismi di 'Dublino' nell’attesa che si dia vita, subito e concretamente, a un sistema europeo dell’asilo.   Inoltre, va necessariamente ripensata la procedura di identificazione e di determinazione dello Stato membro competente per l’esame della domanda di protezione. Una volta definite le quote di ripartizione – in modo che siano adeguate alla portata dei flussi in atto verso l’Europa – vanno creati, sì, centri per l’identificazione, ma destinati al fine prioritario di permettere ai profughi che intendono presentare domanda di protezione internazionale di accedere alla relativa procedura e in tempi brevi, già nella fase successiva al primo soccorso. Qualora, attraverso un colloquio preliminare svolto dai funzionari delle Unità Dublino – da rafforzare in termini di personale e di operatività e coordinare a livello centrale – si riscontrino tali esigenze, va attivata in tempi brevissimi la procedura di trasferimento nello Stato membro individuato come competente. In tutti gli altri casi, si procede alla ricollocazione nei diversi Stati membri in base alle quote definite. Per ottenere in tempi più rapidi un più ampio utilizzo del meccanismo dei ricongiungimenti familiari e delle clausole umanitarie, l’Italia potrebbe rivolgersi direttamente a quei Paesi europei che già si sono mostrati disponibili a gestire unitariamente il flusso di profughi, realizzando una serie di accordi bilaterali.   Ma fare questo significa inquadrare il fenomeno in tutta la sua portata e scegliere di intervenire laddove i flussi si addensano. È indispensabile, dunque, avviare programmi di reinsediamento e di ammissione umanitaria con numeri molto più alti di quelli irrisori previsti dall’agenda dell’Unione. Va messa in atto una strategia a livello europeo di anticipazione/avvicinamento della richiesta di protezione internazionale nei Paesi di transito dei profughi; qui va istituito – quando possibile – un sistema di presidi assicurato dalla rete diplomatica dei Paesi dell’Unione e dal Servizio europeo per l’azione esterna, insieme ad Acnur e ad altre organizzazioni umanitarie umanitarie. Qui i profughi verranno accolti temporaneamente per poi essere trasferiti con mezzi legali e sicuri in Europa, nello Stato membro in cui chiederanno asilo. D’altra parte, vanno intensificate e attuate in tempi brevi le iniziative di cooperazione con i Paesi di transito dei flussi, a cominciare dal Niger.  Un’ulteriore strada da percorrere è quella di un più ampio ricorso ai visti umanitari nell’ambito del sistema di Schengen, visti rilasciati dalle rappresentanze diplomatiche in caso d’urgenza e necessità, per ragioni umanitarie fondate in particolare su motivi familiari, di studio o professionali. E ancora, in attesa che si attui un sistema europeo del diritto d’asilo, si può intervenire per permettere a quanti abbiano già ottenuto una forma di protezione internazionale di soggiornare e lavorare legalmente in un altro Stato in cerca di migliori opportunità, senza dover aspettare i tempi lunghissimi attualmente previsti. Come si vede, si tratta di proposte estremamente concrete e pienamente realizzabili anche nel contesto dei trattati vigenti e dello stesso Regolamento di Dublino. Certo, tutto questo dovrà essere l’esito di decisioni che solo la politica, quella nazionale e quella europea, è in grado di assumere.  Ma esistono alternative credibili a ciò? *Presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato
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