venerdì 25 giugno 2010
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Si parla ancora della sofferenza dei "popolari" in un Pd monoculturale e che assomiglierebbe un po’ troppo alla vecchia quercia dei Ds. E le ultime polemiche, attorno al termine "compagni", fanno parlare ancor di più. Davanti ai taccuini dei giornalisti si sono alternati nelle lamentele: Castagnetti, Marini, Fioroni, Franceschini, Bindi ed Enrico Letta. Ma dalle sfumature delle loro dichiarazioni emerge già abbastanza chiaramente che la proposta lanciata da Marini di un più efficace coordinamento – anche per i differenti modi di avvertire o meno questo malessere – non potrà avere un qualche significativo seguito.Per prima cosa, allora, ci si dovrebbe chiedere: da quanto dura il malessere? E per rispondere con precisione, bisogna andare indietro nel tempo. Fino all’introduzione del maggioritario e, quindi, del bipolarismo. Fino a individuare in questi eventi la prima origine delle difficoltà dei cattolici impegnati in politica. Dopo la fine della Dc, insomma, tutti (chi più chi meno) sono andati "in sofferenza". Il primo trauma è stato la rottura dell’unità (di fatto più che di diritto) dei cattolici maturata con la costituzione del Ccd, in concomitanza con la trasformazione della Dc in Ppi (1994). I primi con Berlusconi, gli altri prima da soli al centro e, quindi, nell’Ulivo con Prodi.Eventi lontani derivanti per lo più dalle profonde ferite di Tangentopoli, ma che rinviano alla fase d’avvio della lunga transizione dalla Prima a una ancora incompiuta Seconda Repubblica. Sintomi iniziali e forti di quel malessere di cui oggi ancora si parla. Eventi più recenti, ma ugualmente causa di sofferenze e incomprensioni, sono quindi stati lo scioglimento del Ppi e la confluenza dei "popolari" nella Margherita (2002) e, successivamente (2007), la nuova confluenza – con l’ex-Margherita – nel Partito democratico. L’ultimo atto è il recente percorso congressuale (2009) che, pur segnando una divisione dei vecchi ds nei tre schieramenti che si sono affrontati, ha alla fine visto ricompattati gli eredi della Quercia nella gestione del partito guidato adesso da Bersani.Le lamentele, proprio perché hanno origini remote e complesse, sono più che comprensibili, benché, come si è detto, non siano nuove, né sempre coerenti (come la vicenda della candidatura Bonino nel Lazio ha chiaramente mostrato). Il disagio "popolare" per non essere sterile – visto che difficilmente riuscirà a suscitare forme di coordinamento o di collegamento etichettate già sul nascere come "manovre correntizie" – potrebbe almeno costituire l’occasione per una analisi più approfondita e condivisa di quella mutazione del potere dalla quale direttamente deriva il declino, non già dei soli "popolari", ma dell’intera politica italiana.Uno dei motivi per il quale i cittadini non si sentono ben rappresentati, infatti, sta nel progressivo e desolante declino di quella "centralità del Parlamento" che a lungo aveva conferito alla politica un indiscusso primato nelle scelte decisive per il Paese. Adesso le procedure delle scelte di governo, seguono percorsi differenti, che nascono e si sviluppano altrove, e che nelle aule parlamentari arrivano sempre più spesso per una ratifica formale o, peggio, per il solo (spesso ritualmente burrascoso) voto di fiducia. E la tentazione di restringere e addirittura annullare – in particolare (ma non solo) a sinistra, – gli spazi di libertà di coscienza del parlamentare è un altro sintomo di questo processo.La questione è urgente e niente affatto semplice. E forse, sia per esperienza storica, sia per la serietà (a parte stile e argomenti di taluni battibecchi) dei propositi manifestati, i "popolari" potrebbero dare un contributo non meramente teorico al ripristino di quella «legalità» che Castagnetti, giustamente, torna a individuare come obiettivo essenziale. Essenziale per i credenti che partecipano alla costruzione del Pd e per tutti i cattolici impegnati in politica. Quale che sia, oggi, la loro collocazione.
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