martedì 4 gennaio 2011
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Brutto segnale, se a decidere sulle questioni eticamente sensibili – quelle della vita e della morte – sono i tribunali. Vuol dire che c’è un grave conflitto in corso, e che la politica deve intervenire con urgenza: solo chi rappresenta la volontà popolare infatti è legittimato a stabilire le regole del vivere comune, a maggior ragione su queste delicatissime tematiche.Nei giorni scorsi il Tar della Lombardia ha dichiarato illegittime le linee guida regionali che precisavano alcune modalità di applicazione della legge 194, quella che regola l’aborto. Sostanzialmente l’amministrazione lombarda esplicitava – applicandolo – l’articolo 7 della legge che vieta l’aborto quando c’è «possibilità di vita autonoma del feto». La norma, cioè, fissa un criterio ben chiaro: quando per il nascituro è possibile vivere al di fuori del grembo materno allora l’aborto non si può più fare, e in caso di pericolo di vita – e non genericamente di salute – della donna si induce il parto e si cerca di salvare madre e figlio.La Lombardia non ha fatto altro che applicare la legge, indicando concretamente in 22 settimane e 3 giorni di gravidanza quel limite concettuale all’aborto, in base a evidenze scientifiche e cliniche ampiamente condivise dagli operatori del settore. Alcuni medici però hanno fatto – con successo – ricorso al Tar contro l’atto di indirizzo della Regione. Tra loro anche un medico che in precedenza aveva condiviso quegli stessi limiti, contenuti in un codice di autoregolamentazione della Clinica Mangiagalli di Milano del 2004. Un particolare indicativo: se un medico arriva a contestare di fronte ai giudici un provvedimento che aveva già approvato e rispettato, è forte il dubbio che tutta la faccenda sia in realtà una battaglia ideologica, che ben poco ha a che fare con la salute della madre e del bambino.Ma di tanta iniziativa da parte di medici, del sindacato che li ha sostenuti (la Cgil), e del loro solerte avvocato – Vittorio Angiolini, già legale di Beppino Englaro, che pure si rivolse al Tar della Lombardia per obbligare l’amministrazione regionale ad applicare la sentenza che sospendeva alimentazione e idratazione a Eluana, vedendosi dare ugualmente ragione – non c’è stata traccia quando nei mesi scorsi l’Emilia Romagna, contravvenendo a tre pareri del Consiglio superiore di sanità e alle linee guida del Ministero della Salute, ha deciso autonomamente che la pillola abortiva Ru486 andasse somministrata in day hospital e non in regime di ricovero ordinario. È noto che con la scelta del day hospital molte donne abortiscono al di fuori dell’ospedale, al contrario di quanto stabilito dalla 194: di fronte a questo "dettaglio" però tribunali, sindacati e attivisti sono rimasti indifferenti.Insomma, due pesi e due misure: in Lombardia è illegittimo che l’amministrazione offra indicazioni esplicite ai propri medici sull’applicazione di una legge dello Stato, in linea con le evidenze della scienza; in Emilia Romagna invece si può, anche se le direttive regionali contrastano con quelle delle massime autorità scientifiche e istituzionali del Paese. A ben vedere, il criterio di fondo è lo stesso: la 194 evidentemente va difesa solo quando è interpretata nel modo più abortista e quando i suoi "paletti" – drammaticamente insufficienti – sono superati da pratiche mediche il meno possibile controllate.A questo punto solo un intervento della politica può mettere ordine in tema di aborto, con indicazioni uniformi sul territorio nazionale e condivise nelle sedi istituzionali opportune – Parlamento e conferenza Stato-Regioni – che garantiscano almeno il rispetto delle norme, in primis per gli aspetti riguardanti il diritto alla vita. Perché sui temi eticamente sensibili i cittadini possono e debbono avere voce anzitutto tramite chi li rappresenta.
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