Quella perfezione che inganna
sabato 29 febbraio 2020

Accade spesso che a Dio l’opera vile di un servo sia più gradita di tutti i digiuni e le opere dei preti e dei frati
Martin Lutero, La cattività babilonese

Ogni utopia di società perfetta produce una città di uomini imperfetti che vivono la loro imperfezione come colpa, che poi diventa il primo strumento di controllo e gestione delle coscienze e delle esistenze individuali e comunitarie. Esiste un rapporto tra l’ideale di perfezione e lo spirito del capitalismo. E, anche qui, il monachesimo prima e la Riforma protestante poi hanno svolto ruoli decisivi. L’idea che la vita cristiana fosse un cammino verso la perfezione iniziò a svilupparsi molto presto, fino a diventare un pilastro dell’umanesimo medioevale, sebbene né la Bibbia né la vita e l’insegnamento di Gesù fossero centrati sull’idea di perfezione. La tradizione biblica aveva infatti posto a suo fondamento persone non presentate come modelli di perfezione morale né di fede. Si pensi a Giacobbe-Israele, ai suoi inganni e alle sue bugie, a Davide, il re più amato, che compie forse l’omicidio più vigliacco della Bibbia, o a Salomone, il re più sapiente, che si corruppe. La storia della salvezza è storia di imperfezioni morali che YHWH riesce a orientare tenacemente verso una misteriosa salvezza.

È errato considerare i vangeli come trattati di morale, tantomeno di un’etica delle virtù. Le beatitudini non sono virtù. Dai vangeli e da Paolo emerge un messaggio dove non sono le opere che salvano né i digiuni, né è la pratica della Legge a rendere giusti. Di perfezione si parla pochissimo nei vangeli, perché il messaggio di Gesù non è una proposta di perfezione etica ma un cammino di donne e uomini liberati dai vani ideali di perfezione che producono soltanto nevrosi e infelicità. Nessun cammino morale pone al suo culmine un patibolo né un sepolcro vuoto – neanche quelle tradizioni medioevali che rappresentano Gesù che sale volontariamente sulla croce. L’etica del merito, l’altra faccia della medaglia di ogni etica della perfezione, è quanto ci possa essere di più distante dall’originale annuncio evangelico. Non siamo amati perché perfetti, e nulla più di una imperfezione sincera attrae il cuore del Dio biblico e cristiano.

Ciò nonostante, fu l’etica greco-romana della perfezione ad avere il sopravvento; e come accaduto con l’etica economica anche in tema di perfezione l’etica cristiana medievale continuò l’ideale morale prevalente nell’Impero romano. Anche perché per gli esseri umani è molto più attraente costruirsi una piccola salvezza meritata che accoglierne una grande come dono immeritato. L’ideale di perfezione si sviluppò molto nel monachesimo. Finito il tempo dei martiri, la santità fu sempre più intesa come perfezione morale, quindi lotta ai vizi e coltivazione delle virtù. E come spesso accade, l’umanesimo dell’eccellenza intesa come perfezione divenne una etica dell’imperfezione e della gestione delle colpe. Essendo, infatti, l’imperfezione il dato empirico della vita, indicare la perfezione come ideale significò produrre infiniti e ineliminabili sensi di colpa, i veri padroni di ogni etica della perfezione. Ogni ideale di perfezione genera solo errori e peccati, e lo fa ogni giorno di più. Il frutto di ogni legge vissuta come ideale etico è il peccato. Ciò che ha più valore nelle etiche della perfezione non è l’ideale ma lo scarto tra l’ideale e il reale, un valore infinito perché infinito è l’ideale.

La confessione e la penitenza divennero allora gli strumenti di management di persone eternamente imperfette che vivono come colpa lo scarto tra la loro vita reale e l’ideale. Partita dai monasteri l’etica "cristiana" della perfezione morale si diffuse in tutta l’Europa. Con l’ascesi intesa come perfezione crebbe anche il ricorso alla confessione privata e alle conseguenti penitenze, dentro e poi fuori i monasteri. Col monachesimo, in particolare quello irlandese, la confessione iniziò a diventare una faccenda privata tra monaco e padre confessore. Con la privatizzazione e individualizzazione della confessione (che nei primi secoli era una faccenda pubblica e comunitaria) cominciò anche la privatizzazione delle penitenze. Queste diventano sempre più dettagliate e specifiche, e ad ogni colpa corrispondeva la sua pena con relativa "tariffa" – da cui il nome, indicativo, di penitenza tariffata. Leggiamo nel "Penitenziale di Colombano": «Se qualcuno ha peccato col pensiero, cioè ha desiderato uccidere, fornicare, rubare, mangiare di nascosto, ubriacarsi, percuotere qualcuno, faccia penitenza a pane e acqua per sei mesi... Se qualcuno ha spergiurato, faccia penitenza sette anni».

Con il passare del tempo arrivarono delle innovazioni. Furono introdotte altre forme di penitenza come i pellegrinaggi, e si iniziò ad affermare la dimensione oggettiva della penitenza, cioè indipendente dal soggetto peccatore. Anche perché le penitenze, che erano additive e cumulabili, arrivavano spesso a delle dimensioni (per qualità e quantità) impossibili e insostenibili da una singola persona. Da qui l’innovazione decisiva: la penitenza poteva essere eseguita da qualsiasi persona, non solo dal peccatore, perché ciò che contava era la "soddisfazione" da parte di Dio. Il Dio cristiano così divenne, senza che gli chiedessimo il permesso, un creditore infinito verso uomini eternamente debitori di somme morali inestinguibili e continuamente rinegoziate. La prima borsa valori globale e universale del Medioevo è stata la religione.

Prese quindi piede l’idea che la pena potesse essere scambiata, trafficata, commercializzata, un fenomeno che fu molto favorito dall’introduzione del mezzo monetario. Data questa sua dimensione oggettiva, la penitenza divenne facilmente una merce, vendibile e acquistabile in una compravendita. Così la penitenza si sganciò dalla singola persona, e nacque il primo titolo derivato nella storia, perché la penitenza poteva essere rinegoziata come un ente in sé autonomo – Caio peccava e Tizio faceva il pellegrinaggio. Il mercato delle penitenze fu ulteriormente facilitato dall’estensione della penitenza tariffata dai monaci ai laici, invadendo poco alla volta l’intera cristianità medioevale. A partire dal secolo XII il binomio perfezione-penitenze generò poi "elenchi di commutazione" che consentivano che un periodo breve di digiuno duro equivalesse, secondo precisi algoritmi, a uno più leggero ma più lungo. Le ulteriori invenzioni dell’indulgenza plenaria associata a pellegrinaggi e al giubileo (fondamentale fu quello indetto da Bonifacio VIII nel 1300), l’estensione dell’oggettività e transitività della penitenza anche ai morti del purgatorio, crearono mercati via via più perfetti e astratti. Aumentò quindi anche la diseguaglianza tra ricchi e poveri, perché chi aveva più denaro poteva essere esentato da gravose penitenze.

Siamo arrivati così alle soglie di Lutero e della Riforma, quando l’economia della salvezza e l’economia del denaro erano già profondamente intrecciate. Da questo punto di vista, è vero che un primo "spirito del capitalismo" si era già sviluppato nel mondo medioevale, ma non era avvenuto tanto nei mercanti di panni e nelle banche nelle città italiane del Trecento, ma molti secoli prima tra i monaci penitenti e nei mercati delle penitenze e dei meriti. Siamo stati capaci di dar vita in Europa nella modernità al più grande esperimento mercantile della storia umana, perché i cristiani da secoli erano stati abituati a ragionare di prezzi, debiti, crediti nelle sfere più intime della vita, della morte, di Dio. Il "salto di specie" dalla religione all’economia fu facile e veloce. E anche qui sorge necessaria una domanda, la stessa che ci siamo posti per la ricchezza vista dai calvinisti come segno di elezione: dove sta il Vangelo? È difficile trovarlo. Dobbiamo invece dire che anche le penitenze tariffate sono state un altro effetto non intenzionale, questo tutto cattolico, operato dal cristianesimo nella sfera economica, un effetto che con il Vangelo c’entrava poco o niente.

Ma c’è di più. Lutero e i riformatori insieme all’abolizione degli ordini religiosi – affinché l’ascesi e la vocazione non fossero più privilegi di una élite di religiosi, ma diventassero la vita ordinaria di tutti, soprattutto nel lavoro – abolirono anche la confessione e la gestione delle penitenze, espressione diretta dell’idea (per loro pelagiana) che la salvezza fosse legata alle opere. Fin qui la storia è ben nota. Molto meno noto è un altro effetto collaterale. Il lavoro divenne il nuovo luogo buono di quella ascesi e perfezione "cattiva" espulsa dai monasteri, e quindi l’economia divenne l’ambito dove l’ideale di perfezione etica più si è sviluppato nell’umanesimo protestante. Se, infatti, la visione ascetica della vita come vocazione non serve a procurarsi meriti presso Dio, l’ascesi, l’ideale di perfezione e la vocazione hanno nell’economia il loro senso. E così, come dalla critica protestante ai meriti nella religione nacque, secoli dopo, la meritocrazia nel capitalismo protestante, dalla critica all’ideale di perfezione dei monasteri nacque, secoli dopo, l’economia moderna come regno della perfezione.

La Political Economy anglosassone e la grande impresa capitalistica hanno il culto della perfezione. La scienza economica si è tutta costruita sull’idea di perfezione – concorrenza perfetta, razionalità perfetta, informazione perfetta – e ha letto ogni deviazione dalla perfezione come fallimento (failure) del mercato e della razionalità. E oggi, mentre la teoria economica si sta riconciliando con la categoria del limite, è la grande impresa che continua a coltivare l’utopia dell’organizzazione razionale ed efficiente – si chiama efficienza la perfezione morale del capitalismo. E così la societas perfecta della Chiesa passò alla business community. La battaglia teologica contro una salvezza intesa come perfezione morale, ha generato il capitalismo come luogo profano della buona perfezione, dove il posto delle penitenze tariffate e dei libri penitenziali lo occupano le job description e gli schemi incentivanti. Il "perfettismo" (Antonio Rosmini) è infatti anche una delle grandi patologie della grande impresa, che interpreta come fallimento ogni scarto tra l’ideale e il reale, che produce nei lavoratori gli stessi sensi di colpa dei penitenti medioevali.

Il meccanismo è infatti lo stesso: il limite vissuto come colpa che deve essere espiata con precise penitenze. Gli incentivi sono queste nuove penitenze, codificati e oggettivati in nuovi manuali per confessori. E anche se gli incentivi non si presentano esplicitamente come penitenze ma come premi, in realtà sono espressione della stessa antropologia che considera il limite umano come "peccato" e vede lo scarto tra ideale e reale come fallimento e colpa di "perdenti" incapaci di raggiungere gli standard. Come il monaco medioevale che lasciato alla sua vita naturale era destinato al fallimento e le penitenze gli consentivano di sperare di ridurre lo scarto, così l’incentivo fa sì che le azioni naturali e imperfette dei lavoratori si orientino verso gli obiettivi ideali fissati dal management. Il Vangelo è buona notizia perché è liberazione dai nostri ideali astratti, per poter incontrare gli altri e Dio nella bellezza perfetta di una vita imperfetta. Ci abbiamo messo secoli per capirlo. Oggi lo abbiamo dimenticato, e così le imprese cercano di mettere a reddito il nostro desiderio di paradiso cercato quasi sempre nei luoghi sbagliati.

l.bruni@lumsa.it

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