venerdì 2 febbraio 2018
False accuse ai cristiani dopo l'uccisione del leader induista estremista Saraswati, di cui si sono autoaccusati i ribelli maoisti. Ma c'è chi si batte per la verità, nonostante le minacce
In una foto d'archivio, manifestazione di protesta dei cristiani in Orissa dopo le violenze (Ansa)

In una foto d'archivio, manifestazione di protesta dei cristiani in Orissa dopo le violenze (Ansa)

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Pochi tra i cristiani dell’Orissa e in particolare del Kandhamal, distretto di questo Stato orientale dell’India, hanno dimenticato le terribili giornate che, con avvio il 25 agosto 2008, ne hanno segnato l’esistenza. In Kandhamal e nelle aree circostanti colpite da quella che viene considerata la peggiore persecuzione anticristiana della storia del Paese asiatico, quelle violenze hanno segnato uno spartiacque. Vi è un 'prima' di difficoltà, ma anche di speranza, che l’adesione al cristianesimo da parte di fuoricasta e tribali fosse prologo a una giustizia negata dalle discriminazioni che ancora si annidano nella 'più grande democrazia del mondo'; e vi è un 'dopo' in cui questa speranza è caduta e in cui insicurezza, frustrazione e delusione si sono accumulate costringendo all’esodo molti, lasciando nell’isolamento altri.

Per quei fatti o, meglio, per il loro prologo e pretesto, ovvero l’uccisione di un leader estremista da tempo impegnato a riconvertire i cristiani all’induismo, sono stati processati e condannati sette cristiani locali. Questo nonostante che dell’omicidio di Laxmanananda Saraswati e di quattro seguaci nella notte del 23 agosto 2008 si fossero auto-accusati i maoisti che da decenni conducono nell’area attività di propaganda e di guerriglia. Di conseguenza, su quella che gli attivisti indicano come «la vera cospirazione» dietro i fatti del Kandhamal si è ora attestata la resistenza della comunità cristiana, con il sostegno di attivisti, intellettuali e giuristi. Una richiesta di giustizia che tocca un nervo scoperto dell’India attuale: la discriminazione, che nelle sue varie forme riguarda ancora un terzo della popolazione complessiva e l’impossibilità di vederla riconosciuta e perseguita secondo la legge. Una legge che si confronta con l’hinduttva (induità), ideologia che vorrebbe riconsegnare l’intera India, con le sue tradizioni, diversità e tolleranza a un passato mitico ma sicuramente funzionale alla leadership induista. Ancor più dopo la vittoria nelle elezioni del maggio 2014 del Bharatiya Janata Party, espressione politica dell’induismo militante.

Da qui le accuse di conversioni forzate avanzate sempre più spesso verso leader e istituzioni cristiani e il teorema di una 'cospirazione cristiana' in funzione anti-induista di cui anche l’uccisione di Laxmanananda Saraswati sarebbe parte. Tra le 'prove', una dichiarazione dello stesso esponente induista contenuta in un documentario ('L’agonia del Kandhamal') prodotto dall’India Foundation, una pseudo-istituzione che risulta centrale nell’elaborazione della presunta 'cospirazione cristiana' per impossessarsi del Kandhamal: «L’intento reale di Europa, Stati Uniti, il Papa e Sonia Gandhi era di trasformare l’intera regione in un territorio cristiano indipendente. Dio mi ha chiamato dall’Himalaya e ha bloccato questa iniziativa. Da qui nasce la loro campagna per eliminarmi e imporre il cristianesimo. Fino a quando sarò vivo, non lascerò che questo accada».

Molto è stato scritto sui fatti del Kandhamal e le loro ricadute in Orissa e altrove, perché alla fine lì si situa l’avvio di una nuova fase del rapporto tra cristianità e maggioranza indù, ma anche tra diritto e sopraffazione nel Paese. Tra i più accaniti nel cercare giustizia e nel contrastare il tentativo induista di infangare il cristianesimo in India dopo i fatti del Kandhamal, è il giornalista Anto Akkara (che è anche collaboratore di 'Avvenire') che in decine di viaggi nella regione ha raccolto una immensa mole di testimonianze e di fatti, ma anche contribuito a coordinare una reazione che non coinvolge diversi settori della società civile indiana. Mettendo in evidenza come la morte di Lakshmanananda Saraswati e dei suoi collaboratori sia stata pagata con l’uccisione di un centinaio di cristiani, l’incendio di 300 chiese, la devastazione di 6.000 abitazioni in un crescendo di violenza che ha costretto 55mila individui alla fuga e spesso li ha condannati all’esilio. Un bilancio, per Akkara, «troppo pesante per essere casuale o legato alla sola reazione istintiva alla scomparsa del leader indù».

Subito dopo l’omicidio di Laxmanananda Saraswati, ricorda il giornalista, «quattro cristiani tra cui un 13enne analfabeta furono catturati dagli attivisti del Vishwa Hindu Parishad. Pestati e poi consegnati a posti di polizia. Non è significativo che i nomi degli assassini del 'maestro spirituale' siano stati diffusi dal leader locale di questa organizzazione estremista e non dalla polizia? È così che è partito l’inganno della 'cospirazione cristiana' dietro l’uccisione». Ma non è bastato. «Quando la polizia è stata costretta, per mancanza di prove, a rilasciare i primi accusati dopo 40 giorni – prosegue Akkara – questi hanno dovuto dichiarare per iscritto di essersi consegnati spontaneamente, per paura». A questo punto, però sono spuntati altri presunti colpevoli, sette battezzati che vivevano nella remota area boschiva di Kotagarh. In un procedimento speciale durato cinque anni, che ha visto alternarsi tre giudici di cui il secondo (Biranchi N. Mishra) trasferito prima di poter emettere la sentenza, i sette (Bijay Kumar Sanseth, Durjo Sunamajhi, Bhaskar Sunamajhi, Budhadeb Nayak, Munda Badamajhi, Sanatan Badamajhi e Chalanseth) sono stati condannati nell’ottobre 2013 al carcere a vita, rileva ancora Anto Akkara, «senza prove valide».

Non sorprende – sottolinea il giornalista cristiano – che «due anni dopo la condanna, gli stessi funzionari di polizia che avevano garantito la condanna ai cristiani innocenti, hanno comunicato alla commissione d’inchiesta sulle violenze del Kandhamal guidata dal giudice A.S. Naidu che la tanto esaltata 'cospirazione cristiana' era senza fondamenti». Un pretesto era invece quello che serviva per dare il via alla persecuzione che doveva poi estendersi con uno stillicidio di pressioni, intimidazioni e aggressioni in buona parte del Paese con l’intento di colpire una comunità pretestuosamente collegata a Sonia Gandhi, italiana di nascita, battezzata e da lungo tempo naturalizzata indiana, presidente del Partito del Congresso quasi permanentemente al potere dall’indipendenza e che nel maggio 2014 ha ceduto la maggioranza ai partiti filo-induisti.

Da tempo lo stesso Akkara ha delineato, con meticolosità e correndo rischi personali, non solo le carenze nelle indagini ma anche gli interventi di copertura di agenzie governative, la pubblicazione di libri e di video a sostegno della 'congiura cristiana' in Kandhamal e la mancanza di conseguenze dopo la presentazione del rapporto della Commissione Naidu il 22 dicembre 2015. Infine, il giornalista ha segnalato «il ruolo ambiguo» della Commissione nazionale per i diritti umani che in nove anni non ha in alcun modo affrontato la violenze, le loro ragioni e conseguenze. «Il lavoro di Akkara ha evidenziato le assurdità e le discrepanze delle sentenze contro i sette individui basandosi come prova soltanto su una dichiarazione della Chiesa che è risultata falsificata», segnala la leader comunista Brinda Karat. Anche dopo che i ribelli maoisti hanno confermato la propria responsabilità nell’assassinio di Lakshmanananda Saraswati, è stato fatto ogni sforzo da parte dell’accusa per confezionare prove e mostrare che gli accusati avevano legami con i maoisti in quella che la stessa Karat definisce «la più oltraggiosa finzione di giustizia».

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