Il Nobel anti-nucleare non è puro sogno
sabato 7 ottobre 2017

I cinici dicono che gli ottimisti sono persone poco informate. I vincitori del Nobel per la Pace e chi li ha premiati hanno invece una conoscenza approfondita della situazione attuale e sono consapevoli dei rischi che il mondo oggi corre. Eppure, il riconoscimento è un segno dell’ottimismo dell’impegno e della speranza. Non sono l’ingenuità o la paura ciò che muove il grande movimento mondiale raggruppato sotto il cappello dell’Ican, ma la convinzione che una Campagna globale contro le armi atomiche, di ampio raggio e lungo periodo, non sia solo utopia di sognatori, ma concreta spinta al cambiamento.

IL DOSSIER DI AVVENIRE SULLA MESSA AL BANDO DELLE ARMI NUCLEARI

Spesso è facile essere cinici e avere ragione, di fronte alle resistenze e alle insipienze di governanti e popoli. Ma le storie di successo non mancano. La Campagna internazionale per il bando delle mine antiuomo portò (non da sola, è ovvio) al Trattato di Ottawa (1994), che vieta produzione, vendita e utilizzo degli ordigni vigliacchi e subdoli che mietono per decenni vittime tra la popolazione civile. In quel caso, il Nobel per la Pace, nel 1997, venne a suggellare l’opera della Icbl.

Certo, l’obiettivo dell’Ican è molto più ambizioso rispetto ad altre mobilitazioni. Non era facile nemmeno il primo grande traguardo: arrivare al Trattato per la proibizione delle armi nucleari. Ma il 20 settembre scorso, alle Nazioni Unite, 122 Paesi hanno votato per rendere illegali gli ordigni atomici e procedere verso la loro totale eliminazione. Nessuno degli appartenenti al "club nucleare" sarà tra i sottoscrittori, né lo sono i Paesi Nato, Italia compresa, che nell’Alleanza atlantica condividono la dottrina della deterrenza atomica.

Tuttavia, la strada è aperta, perché gli scenari sono cambiati. La contrapposizione dei due blocchi durante la lunga e cupa stagione della Guerra fredda aveva permesso di far reggere un pericoloso equilibrio del terrore, basato sulla distruzione mutua assicurata dei due contendenti, ovvero l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti con i loro alleati. In quegli anni, segnati dall’incubo dell’apocalisse atomica, i dottor Stranamore (dal film di Stanley Kubrick) potevano comunque mettere a rischio l’intero Pianeta. Ed è noto che almeno in un’occasione furono la competenza e la freddezza, riconosciute soltanto anni dopo, dell’ufficiale di Mosca Stanislav Petrov a evitare l’avvio casuale di una guerra termonucleare, che il 26 settembre 1983 poteva essere scatenata da un errore dei sistemi di sorveglianza.

Ma l’emergere di un mondo multipolare e la capacità di armarsi da parte di Paesi che vogliono giocare in proprio una partita di potenza ha fatto cadere la già fragile rete dell’equilibrio del terrore. L’escalation nella crisi nordcoreana ne è l’esempio lampante. Kim Jong-un non ha gli strumenti, né mai li avrà, per distruggere il mondo, la disponibilità di armi atomiche ne fa però una minaccia pericolosissima per tutto lo scacchiere del Sud-Est asiatico, con il probabile coinvolgimento degli Usa, una volta che fossero aperte le ostilità. Ad accelerare l’ideale ticchettio dell’"orologio nucleare" potrebbe contribuire anche Donald Trump, se davvero denuncerà l’accordo che ha portato l’Iran a rinunciare alla bomba.

Che il Trattato non sia sufficiente è però lapalissiano. Come, in piccolo, importanti Paesi non hanno aderito al divieto delle mine, così tante Nazioni non rinunceranno facilmente ai propri arsenali. La principale motivazione, in prima battuta persuasiva, per cui gli Stati democratici non vogliono smantellare le testate è proprio la possibilità di scoraggiare i regimi in cui il popolo non ha voce in capitolo dall’utilizzarle a scopo di aggressione. Come dissuadere Kim, quando non gli si potesse prospettare una risposta proporzionata?

Non sarà un premio Nobel a fare cambiare idea ai vertici nordcoreani, ma nel tempo anche quell’autocrazia cadrà e la gente potrà scegliere di dire addio al nucleare. Né si può dimenticare che tra i Paesi sostenitori del Trattato vi è chi spende per armamenti convenzionali percentuali record del proprio Pil (l’Arabia Saudita) e addirittura quanto l’ex superpotenza russa (il Marocco, solo per fare qualche esempio).

Se allora la Santa Sede è senza macchia in prima fila nel sostenere il bando, forte della sua opera diplomatica globale per fermare i conflitti, l’Italia può trovare un’opportunità non tanto in una improbabile fuga in avanti unilaterale rispetto al suo sistema di alleanze, quanto in una scelta di fondo della propria politica estera e di difesa volta a promuovere, anche in sede europea, credibili e concrete iniziative di dialogo per negoziati multilaterali orientati a ridurre gli arsenali nucleari esistenti.

Anche in questo caso, è dal basso, dalla società civile, dalla rete di organismi che nel nostro Paese fanno parte della rete Ican che può venire uno stimolo forte sia ai protagonisti politici sia all’opinione pubblica. Il tema della spesa militare e del disarmo possono e devono entrare seriamente nel dibattito elettorale, invece di essere oscurati da slogan e presunte emergenze di più facile presa mediatica. E questo Nobel per la Pace rappresenta una rara occasione da non sprecare.

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