Stato e Regioni, differenze e unità
martedì 24 ottobre 2017

Per leggere il significato costituzionale del voto referendario consultivo tenutosi domenica in Lombardia e in Veneto, sarebbe in primo luogo necessario compiere una missione impossibile: separare la questione specifica dell’autonomia (che era oggetto dei quesiti referendari, i quali recitavano più o meno: "volete più autonomia?") dalla battaglia fra i partiti in vista delle prossime elezioni legislative.

È indubitabile, infatti, che il voto di domenica è stato anche e soprattutto una battaglia politica dal sapore "separatista" voluta soprattutto dal "governatore" veneto Luca Zaia e da una parte della Lega Nord, a partire da quella che fa capo al presidente lombardo Roberto Maroni, proprio mentre Matteo Salvini – capo apparentemente incontrastato del partito – era totalmente impegnato ad accreditare un’immagine nazional-sovranista della "sua" proposta politica e camicie e fazzoletti verde-padano stavano scomparendo dall’iconografia leghista. Una battaglia che, nonostante l’adesione tattica di settori del centrosinistra decisi a depotenziarne la portata, ha mantenuto un marchio di centrodestra e, infatti, su questo ritrovato carro "federalista" è salito quasi tutto il centrodestra. Ed è evidente che l’impresa è stata coronata da un certo successo (come era previsto, e prevedibile, assai più in Veneto che in Lombardia) sulla scia di una ripresa di quello schieramento già delineatasi in occasione delle ultime elezioni amministrative.

Qui, però, si vorrebbe affrontare la questione più ardua, quella della portata costituzionale del voto di domenica, relativamente alle linee evolutive della struttura dello Stato italiano, nell’attuale contesto europeo. Al riguardo due letture estreme potrebbero essere prospettate: quella del "nulla" e quella del "tutto".

La prima – che può sembrare prevalente in una prospettiva legalistica – ci dice che i due referendum erano consultivi, che dunque essi non producono alcun effetto (se non il dispendio di denaro pubblico per organizzarli) e che la trattativa fra le due Regioni referendarie e il governo nazionale per il riconoscimento ad esse di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», ai sensi dell’art. 116, 3° comma, della Costituzione, avrebbe potuto essere avviata anche senza referendum, se solo i governi regionali veneto e lombardo lo avessero davvero voluto (il governo Renzi e quello Gentiloni si erano detti disponibili, ma Zaia e Maroni hanno preferito invocare prima il sostegno popolare). Questa lettura si basa su dati di fatto, ma ci dice troppo poco: vede solo il lato legale-formale del problema: imprescindibile, ma insufficiente.

La seconda lettura – quella del "tutto" – potrebbe collocare il referendum veneto (in questo vi sono differenze non marginali rispetto al caso lombardo) in parallelo con la vicenda catalana: dopotutto, nonostante che i due quesiti votati domenica parlassero chiaramente di maggiore autonomia e non di indipendenza (e fossero dunque, per questo profilo, saldamente dentro il terreno della Costituzione), non si può dimenticare che il quesito veneto è l’unico sopravvissuto fra quelli previsti in alcune leggi regionali approvate nel 2014 in cui, accanto a esso, ve ne era un altro che chiedeva di esprimersi sull’indipendenza della Regione e che è stato (ovviamente) soppresso dalla Corte costituzionale (sentenza 118/2015). Inoltre la data scelta per la consultazione – a 151 anni dal plebiscito sull’annessione del Veneto all’Italia dopo la Terza guerra di indipendenza, quasi si trattasse di rovesciarne l’esito – e il linguaggio ambiguo dei fautori del voto, davano al voto di domenica un significato ben più ampio della richiesta di maggiore autonomia.

Del resto, anche il discorso leghista, che da trent’anni è lo stesso nell’Italia del Nord – vale a dire trattenere a livello locale la quasi totalità delle entrate fiscali percepite sul territorio regionale – è una dichiarazione unilaterale di secessione in tutto fuorché nel nome. Tentare una lettura costituzionale del voto referendario di domenica, che percorra la via stretta fra il 'nulla' e il 'tutto', vuol dire, probabilmente, riproporre due questioni fondamentali della storia dello Stato regionale italiano: la prima è quella dell’autonomia, la seconda è quella della differenziazione/ asimmetria. Dal primo punto di vista va riconosciuto, anche da parte dei non entusiasti, che i due referendum 'padani' hanno almeno il merito di riproporre la questione dell’assetto delle autonomie.

Essa è fra le scelte fondamentali della Costituzione repubblicana, ma la sua vita concreta ha sempre oscillato fra pulsioni centrifughe e centripete e dall’esplosione della crisi economica, e dal contemporaneo emergere da molteplici e clamorosi casi di malapolitica e malamministrazione a livello regionale, il vento centralista è diventato dominante: esso era del resto ben presente anche nella fallita riforma costituzionale del 2016, di cui costituiva la parte meno convincente. Ma – lo si è scritto più volte su queste colonne – l’Italia del XXI secolo è troppo complessa per essere governata come se fosse quella pre-bellica, anche se sono del tutto legittime le più varie rimesse in questione del nostro sistema delle autonomie (e quella connessa della decentralizzazione delle competenze statali, magari ricordando la celebre battuta di Massimo Severo Giannini, secondo il quale «lo Stato italiano non è né accentrato né decentrato, essendo in fatto soltanto un pasticcio»).

Ma come rideclinare l’ideale autonomista e il progetto sturziano delle «Regioni per liberare le energie della nazione» nell’Europa paurosa e incerta di questi anni? Come riarticolare un sistema che non ha ancora assorbito la riforma delle Province del 2014? Occorre, evidentemente, un ripensamento di fondo, anche se l’unica cosa certa è che la soluzione non sta nel tenere più soldi in Veneto e in Lombardia (in fondo, una risposta populistica), ma nel chiedersi come le autonomie territoriali possano meglio servire i cittadini: solo a questa condizione si dovrebbe dire Sì al trattenimento di maggiori funzioni (e quindi anche di più soldi) a livello regionale o locale. C’è poi la questione di quanta asimmetria fra i suoi territori lo Stato regionale italiano possa tollerare. Il voto di domenica ripropone in parte la questione settentrionale e del resto l’asimmetria in Italia è nei fatti: i diversi Nord e i diversi Sud del Paese funzionano con ritmi differenti quale che sia l’organizzazione territoriale, e quest’ultima non può non tenerne conto, a pena di essere disincarnata.

Ma può l’architettura istituzionale prenderne semplicemente atto per accentuare ulteriormente queste differenze, fino a rompere di fatto anche quel tanto di unità che è richiesta in uno Stato-nazione post-moderno? Al di là della risposta degli elettori lombardi e veneti ai due quesiti referendari, è dunque l’ora di porsi le vere domande. Cercando di restare aderenti ai problemi oggettivamente aperti e senza inutili svolazzamenti teorici, ma senza eludere i nodi di fondo del sistema delle autonomie, che sono più che mai aperti.

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