sabato 25 settembre 2021
L'offensiva culturale voluta da Xi Jinping fa parte di una strategia di rieducazione più ampia. Gli ideali comunisti enfatizzati in 14 "principi primari". Imprenditori divisi
Dove va la Cina che a scuola insegna il pensiero di Xi

Ansa

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Citazioni di Xi. Immagini di Xi. Gesta di Xi. Confezionati, appositamente, per i bambini cinesi. Dal primo settembre gli alunni delle elementari del gigante asiatico hanno iniziato a studiare una nuova materia: “il pensiero di Xi Jinping”, il nuovo Mao come l’Economist ha etichettato a più riprese il presidente cinese. E i libri di testo hanno immediatamente assorbito la “lezione”: «Nonno Xi Jinping è molto impegnato con il lavoro, ma non importa quanto sia impegnato, si unisce comunque alle nostre attività e si preoccupa della nostra crescita», si legge in un testo consultato dal quotidiano inglese The Guardian.

È solo l’ultimo tassello di una “colonizzazione” della scuola che va, appunto, dalle elementari fino all’università, dove da tempo il pensiero di Xi Jinping è entrato prepotentemente nei corsi accademici. Agli insegnanti spetterà il campito di «piantare nei cuori dei giovani i semi dell’amore per il partito, la patria e il socialismo», come si legge nelle istruzioni redatte dal governo cinese. «Le scuole primarie si concentreranno sulla coltivazione dell’amore per il Paese, il Partito comunista e il socialismo. Nelle scuole medie, l’attenzione sarà focalizzata sulla combinazione di esperienza percettiva e studio della conoscenza, per aiutare gli studenti a formare giudizi e opinioni politiche di base», ha spiegato il Global Time, il tabloid nazionalista del Quotidiano del Popolo. Al college, invece, «ci sarà una maggiore enfasi sull’istituzione del pensiero teorico». Siamo dinanzi a una offensiva che fa parte di una strategia di “rieducazione” più ampia. Una vera e propria campagna di moralizzazione lanciata dal Partito che vuole disciplinare l’uso dei videogame on line (massimo tre ore a settimana), che ha cancellato i talent show in Tv, ha intimato di promuovere una immagine più virile della mascolinità presso i giovani.

Ma qual è il cuore del «pensiero di Xi sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era»? La dottrina Xi si articola in 14 «principi primari» che enfatizzano gli ideali comunisti. I capisaldi attorno ai quali ruota sono il dogma delle «riforme complete e profonde» e delle «nuove idee in via di sviluppo», la promessa di «vivere in armonia tra uomo e natura », l’autorità «assoluta del partito sull’esercito popolare», l’importanza del modello «un Paese due sistemi» (Hong Kong e Macao) e la «riunificazione con la madrepatria » ( Taiwan). Come soppesarli? Cosa si maschera dietro questa profusione di principi? La sintesi del New York Times è drastica. Siamo in realtà davanti a un progetto finalizzato a consolidare il potere a tre livelli: la nazione, il partito e lo stesso Xi. La strategia del leader batte ossessivamente su un punto: «L’obiettivo di una Cina potente e unificata può essere raggiunto solo se il Partito comunista mantiene saldamente il controllo della Cina. Il partito è la soluzione ai problemi della Cina, non la loro fonte ». Insistere sulla centralità del partito non è certo qualcosa di inedito per la Cina. Ma ciò che marca la strategia di Xi è la pervasività delle misure adottate per stringere la presa del Partito Comunista sugli affari, i media, Internet, la cultura e l’istruzione. L’influenza del Partito permea, fino ad asfissiarlo, ogni angolo della società.

«Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era» è stato formalmente iscritto nel 2018 nella Costituzione del Paese. È stato il coronamento di una lunga marcia che ha portato nelle mani di Xi un accentramento di poteri come non accadeva dai tempi di Mao Zedong. Il presidente cinese ha prima accumulato una quantità impressionante di cariche – da segretario del Partito Comunista a capo dello Stato, da comandante in ca- po dell’esercito a 'core' («centro, nucleo, sole») del Partito, in quella che a molti è parsa come una vera e propria 'bulimia' di potere. Quindi ha 'marcato' – iscrivendovi la sua dottrina – lo Statuto del Partito comunista cinese (Pcc), come nessun altro leader cinese aveva fatto: unica eccezione, guarda caso, Mao. Nel 2018 è arrivata la 'picconatura' finale del compagno Xi: l’eliminazione del limite dei due mandati al potere presidenziale e la costituzionalizzazione del suo pensiero. Una doppia mossa che, di fatto, ha smontato l’architettura istituzionale cinese. Mandando in frantumi quel sistema di potere 'collegiale' e a 'termine' che, faticosamente, il Dragone aveva messo in piedi per evitare che si ripetessero gli eccessi legati al culto della personalità su cui Mao aveva edificato il suo potere. E per sterilizzare le lotte fratricide tra fazioni: nessuna doveva prevalere – definitivamente – sulle altre. Via ogni limite e ogni argine, dunque. Xi Jinping potrà 'regnare' a tempo indeterminato, ben oltre il termine dei dieci anni, imprimendo al suo potere una torsione imperiale.

L’autocrazia di Xi ha assicurato una forza e una stabilità senza precedenti alla Cina? In realtà la questione non è così semplice. «Con Xi Jinping – spiega Nunziante Mastrolia, fondatore di Stroncature e autore di “Chi comanda a Pechino?” – la Cina ha fatto, in realtà, un balzo indietro impressionate. L’attuale presidente cinese ha smontato quelli che erano stati i capisaldi della politica istituzionale cinese messi in piedi a partire da Deng Xiaoping e posto fine a una serie di percorsi che garantivano una più ampia anche se relativa indipendenza della società civile, l’autonomia del mercato e bloccato ipotesi, avanzate dall’allora primo ministro Wen Jabao di primazia della costituzione sul partito. Insomma, sebbene in nuce, eravamo in presenza di un abbozzo di stato di diritto. Xi Jinping, con la lotta alla corruzione, in realtà una gigantesca purga, ha distrutto ogni forma di collegialità e di gestione condivisa del potere, affermando il primato del partito sulla Costituzione ». L’ossessione che agita il nazionalismo cinese: «correre avanti per tornare indietro», vale a dire riparare alle umiliazioni subite da parte delle potenze occidentali e ripristinare così un ordine sinocentrico, di tipo “imperiale”.

Una politica che però rischia di avere un costo altissimo. Il gigante asiatico è esposto a un rischio potenzialmente mortale. «Dopo la morte di Mao – spiega ancora Mastrolia – il partito ha impiantato un ingranaggio che assicurava il passaggio del potere da una generazione all’altra: il limite dei due mandati, una gestione collegiale e meccanismi di cooptazione molto precisi. Ebbene, Xi ha smontato questo meccanismo, distruggendolo. Lo scenario più probabile quando il leader uscirà di scena, senza aver indicato il suo delfino, è che l’unica “norma” che regolerà la successione sarà la legge del più forte, della violenza». Come segnala Asia Times, dietro la facciata monolitica, i segni di erosione nella leadership di Xi sono già avvertibili: «Di fatto si è prodotta una spaccatura ideologica tra il presidente e l’élite imprenditoriale e culturale del Paese», ha scritto il quotidiano on line. Il futuro della Cina può dipendere dalla profondità di quella spaccatura.

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