Trump vede la luce: «Buone chance» sulla tregua a Gaza
Il nuovo faccia a faccia con Netanyahu nello Studio Ovale accelera i tempi: «L'accordo entro questa settimana o la prossima». Si cambia anche sugli aiuti. Resta il nodo del ritiro dell'esercito

Il messaggio è stato recapitato. A portarlo non è stato, come ipotizzato fino all’ultimo, l’inviato Usa per il Medio Oriente, Steve Witkoff, ancora a Washington, da cui partirà solo a accordo fatto. Bensì Bashara Bahbah, canale cruciale tra la Casa Bianca e Hamas per il rilascio dell’ostaggio americano Edan Alexander, il 12 maggio scorso. È stato l’imprenditore palestinese a far arrivare al gruppo armato la garanzia di Donald Trump che Israele non riprenderà l’offensiva al termine dei 60 giorni di cessate il fuoco. Un impegno strappato dal tycoon a un riluttante Benjamin Netanyahu nel faccia a faccia di martedì sera (la notte in Italia) nello Studio Ovale. Il secondo nel giro di 48 ore. Alla fine dei novanta minuti di incontro non c’è stato un comunicato né tantomeno l’annuncio da parte del leader repubblicano di un “accordo di Doha-bis”. Quest’ultimo, però, ha dichiarato che le opzioni di arrivare a un accordo «entro questa settimana o la prossima sono molto buone. Siamo molto vicini». Come ha spiegato Witkoff, sono stati sciolti quasi tutti i nodi su cui il governo di Tel Aviv e la dirigenza dei miliziani erano incagliati nella trattativa in atto da domenica nella capitale qatarina. Segno che, nonostante gli 11mila chilometri di distanza, le riunioni di Washington e quelle di Doha fanno parte di un’unica trattativa al cui centro è collocato lo Studio Ovale. A quest’ultimo Hamas ha chiesto e ottenuto – come confermano tutte le fonti vicine ai negoziati – l’impegno allo stop definitivo dell’offensiva israeliana. Il punto dirimente. I colloqui, dunque, hanno fatto un balzo in avanti. Tanto che, in cambio di un «accordo serio», il gruppo armato ha proposto il rilascio immediato dei dieci rapiti vivi, non lungo l’arco dei due mesi di stop. Lo stesso Netanyahu ha parlato di «buone possibilità» per la tregua. Mentre per il capo di stato maggiore, Eyal Zamir, «sono state create le condizioni».
Oltre allo stop permanente ai combattimenti, i delegati – sempre secondo fonti vicine alla mediazione – hanno trovato un compromesso sulla gestione degli aiuti. Il gruppo armato aveva chiesto l’esclusione della controversa Gaza humanitarian foundation (Ghf), finanziata da Usa e Israele e al centro delle critiche perché da quando i suoi quattro centri di distribuzione sono entrati in funzione, il 26 maggio scorso, almeno 500 persone sono state uccisi nell’intento di raggiungerli. Le parti hanno concordato che ad occuparsi delle operazioni sarà un soggetto terzo. Cosa che, implicitamente, esclude Ghf. Gli sviluppi a Doha tra l’altro coincidono – forse non proprio casualmente – con una serie di rivelazioni su presunte irregolarità della fondazione, denunciate tra l’altroda UsAid. Proprio ieri è stato rimosso un funzionario del dipartimento di Stato nonché collaboratore di Elon Musk accusato di avere accelerato la pratica per i 30 milioni di dollari appena concessi da Washington. La fondazione, però, rifiuta di cedere e, anzi, ha appena annunciato l’espansione delle operazioni nel centro dell’enclave.
Resta da dirimere la questione del ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia. Tel Aviv vorrebbe mantenere il controllo del “corridoio Morag”, la linea d’asfalto che taglia per dodici chilometri il sud dell’enclave, separando Rafah da Khan Yunis. Gli israeliani l’hanno disegnata lo scorso aprile e non vogliono lasciarla. Dopo un lungo braccio di ferro, però, l’esercito ha portato nuove mappe che segnano un arretramento. Si tratta di un punto altamente sensibile, proprio come il “corridoio Filadelfia” che fece naufragare l’intesa un anno e mezzo fa. Là Tel Aviv ha annunciato il progetto di una «città umanitaria» in cui concentrare i gazawi in attesa dell’espatrio. «Volontario», ovviamente. La stessa idea ripetuta a Washington da Netanyahu e Trump. Più, dunque, che lo schieramento delle truppe ad essere ancora in discussione a Doha sono le prospettive per il dopoguerra. E le possibilità concrete di un passaggio di poteri da Hamas a un’entità palestinese legittima, sotto l’egida delle nazioni vicine. Sullo sfondo due visioni inconciliabili. Da una parte, l’ultradestra israeliana che vuole rioccupare l’enclave. Dall’altra quella di palestinesi, arabi e comunità internazionale, per cui la Striscia è parte della soluzione dei due Stati. In mezzo, Trump che oscilla tra un polo e l’altro. Prima ancora che il fuoco cessi, un’altra battaglia è cominciata.
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