Tra gli attivisti di No Other Land: giustizia per Odeh, vittima dei coloni

Viaggio nel villaggio di Masafer Yatta. Il 28 luglio su queste colline è stato ucciso un ragazzo che aveva partecipato al documentario che ha vinto l'Oscar. L'occupazione continua (e le tensioni pure)
August 9, 2025
Tra gli attivisti di No Other Land: giustizia per Odeh, vittima dei coloni
Sipa Usa / Alamy Stock Photo | Il villaggio di al-Tuwani, sulle colline di Masafer Yatta, che rischia lo sgombero da parte dei coloni israeliani
L’operazione comincia con il ronzio dei droni nell’oscurità. Dopo mezz’ora i fanali dei blindati abbandonano la provinciale imbucandosi fra gli stretti passaggi di al-Tuwani, un presepio silenzioso di luci, case e bianca pietra incastonato fra le colline di Masafer Yatta. Alcuni soldati israeliani vengono dislocati a sorvegliare le poche vie di accesso, mentre quattro mezzi fanno sosta davanti alla casa di Basel Adra, premio Oscar per il documentario No Other Land. Il giovane regista è assente, ma altri attivisti occupano la sua terrazza. La torcia montata sul fucile percorre con il suo cerchio luminoso la struttura, fino a inquadrare le figure. Comincia l’alterco, due soldati si introducono nell’abitazione. Le ombre degli attivisti spariscono dalla terrazza. «Hanno detto che se non fossimo scesi ci avrebbero soffocato lanciando i lacrimogeni. Poi ci hanno chiusi dentro, e intimato di stare buoni fino alla loro partenza. Se avessimo provato a uscire avrebbero sparato. Con noi era presente anche un attivista israeliano», racconterà poi Mohammad Hureini.
Con l’aurora e la sinfonia dei galli arrivano poi due corriere di pellegrini. Altri sono giunti a piedi dalle colonie vicine. Scopo dell’occupazione militare di al-Tuwani è quello di permettere agli ultra-ortodossi di pregare su un sito ritenuto di valore religioso, un’antica sinagoga mai riconosciuta dall’archeologia ufficiale. Le immagini successive, diffuse in rete dagli stessi fedeli, li mostrano nella conca cosparsa di rocce e vegetazione, intenti a passeggiare, dialogare, osservare chini il telefono. È la terza volta che il pellegrinaggio viene organizzato, la prima dal 7 ottobre. Poco più di due ore e la comitiva risale sulle corriere, i soldati abbandonano le postazioni e ripartono, gli abitanti di al-Tuwani timidamente escono dalle case.
L’enclave si trova a poche centinaia di metri dal confine della “Zona di tiro 918”, un’area d’addestramento ritagliata nel 1981 dal governo israeliano, dove non possono esistere abitazioni civili. Secondo i dati raccolti dall’Onu, le zone di tiro occupano il 30 per cento dell’Area C, quella destinata a essere restituita all’Autorità nazionale palestinese (Anp) secondo gli Accordi di Oslo, e il 10 per cento di tutta la Cisgiordania. L’implementazione degli ordini di trasferimento e demolizione, fattisi pressanti nelle ultime settimane, significherebbe a Masafer Yatta la cancellazione delle dodici comunità di pastori presenti nella zona, circa 1.200 persone. Un crimine di guerra per l’Onu. Le zone di tiro si dividono in attive e inattive. In queste ultime, in trent’anni, sono sorte almeno quattro fra colonie e avamposti israeliani. Per spiegare il fenomeno esperti legali e attivisti citano le minute governative del 1981, quando il ministro dell’agricoltura Ariel Sharon, poi premier, spingeva per la nascita della zona di tiro, un modo per «tenere questi territori nelle nostre mani». Il 7 ottobre è stato il catalizzatore di un processo pluridecennale che interessa anche i villaggi situati appena fuori della zona d’addestramento, come al-Twani, o Umm al-Kheir, dove il 28 luglio Odeh Hathalin, storico attivista nonviolento, è stato ucciso da Yinon Levi, ultraortodosso di Carmel, una delle tante colonie nate nelle colline a sud di Hebron negli anni Ottanta.
Le immagini dell’omicidio hanno fatto il giro del mondo. Durante un diverbio, Levi ha sfilato la pistola dai calzoni e fatto fuoco. Hathalin si trovava a circa trenta metri, oltre le sbarre di ferro che delimitano l’area comune del villaggio. Levi è stato trattenuto dalla polizia per poche ore, poi rilasciato con l’obbligo dei domiciliari. Dopo tre giorni è tornato alla piena libertà. Ora le sbarre di ferro sono coperte da un drappo nero. Dentro, all’ombra di un vasto tendone, gli uomini bisbigliano sulle panche, con i loro giochi silenziosi i bambini partecipano al lutto. La prima casa della colonia di Carmel non dista più di cinquanta metri.
«Odeh era la voce del mondo, un uomo benedetto. Ha servito per anni il villaggio difendendolo dai coloni, ha servito tutta Masafer Yatta», dice Ekhlas Hathalin, cognata dell’attivista ucciso. Insieme ad altre sessanta donne del villaggio, per una settimana Ekhlas ha portato avanti uno sciopero della fame con l’intento di riavere la salma di Odeh, trattenuta dalla polizia israeliana fino al raggiungimento di un’intesa sulle modalità restrittive del funerale. Un rito per pochi, negato ai non residenti contro i dettami dell’accordo, una sepoltura militarizzata tenutasi giovedì scorso, nell’intimità forzosa volta a evitare disordini, a disinnescare il dramma della religiosità funebre che conduce al politico e alla sua disseminazione. «Tutto è cambiato dopo il 7 ottobre. Prima vivevamo sereni, nella speranza. Avevamo poca acqua, poca elettricità. Una vita semplice, di lavoro e piccole gioie. Adesso nessuno nel villaggio dorme più, le aggressioni sono quotidiane», racconta Ekhlas.
A vegliare l’assenza del corpo ci sono anche gli amici di Odeh, il gruppo di attivisti che da anni cercano di limitare l’espansione coloniale con gli unici mezzi disponibili, le notizie, i video, i social network. Fra loro anche il giovane “Ahmed”, che preferisce il nome di fantasia: «Nel tentativo di dimostrare che Levi ha sparato per difendersi da una situazione potenzialmente mortale la polizia israeliana ha arrestato alcuni degli amici di Odeh, cercando di estorcere una confessione. Io sono stato dentro per quarantacinque ore. Ero nel mio villaggio quando è avvenuto l’omicidio, posso provarlo. Mi hanno picchiato, insultato, lasciato legato mani e piedi per ore sotto il sole, impedito di dormire. Non è tortura secondo il diritto internazionale? Secondo qualsiasi diritto?».
«Prima del 7 ottobre la polizia faceva il suo dovere. Non completamente, ma lo faceva. Ora siamo davanti a un sistema organizzato che parte dal governo, passa per il sistema giudiziario, l’esercito e le forze dell’ordine, arriva ai coloni e alle loro squadre armate di vigilantes», sostiene Hafez Hureini, fra i fondatori, trent’anni fa, della resistenza nonviolenta di Masafer Yatta. La sua casa sorge lontano dal luogo dove gli ultraortodossi hanno pregato protetti dai soldati. È sotto minaccia di demolizione, come l’ostello dove vengono ospitati gli attivisti internazionali, ormai incapaci di attuare la pratica dell’interposizione, cui seguono l’arresto e l’espulsione. Non una zona di tiro, ma un altro sito archeologico secondo l’amministrazione civile israeliana dell’Area C. «Non possiamo che difenderci così, facendo appello alla sorda comunità internazionale. Proteggeremo i nostri diritti e la nostra terra, giorno dopo giorno. Abbattuti? Al contrario, siamo felici. Resistere è la nostra identità», dice Hafez, padre di Mohammad, che dal tetto vigilava sulla preghiera dei coloni, e di Sami, appena tornato da un tour in Italia.
«Io lo chiamo colonialismo pastorale. È per questo che i coloni uccidono e rubano i nostri animali, ci impediscono di portarli al pascolo. Senza terra e senza animali, scompare la nostra economia, la nostra cultura, noi stessi», spiega Mohammad, 26 anni, che prima del 7 ottobre lavorava in Israele come bracciante. Ora è tornato alle baracche precarie di Mufaggara, comunità che ricade nella zona inattiva della “918”. Luogo aspro, ancestrale, dove le donne spargono sotto la canicola il mangime per le pecore costrette nei recinti, dove anziani pastori fiaccati dal giorno bevono tè osservando in silenzio a notte il deserto sottostante. Mohammad e suo fratello Ali vivono in un ipogeo ammodernato, unico modo per sottrarsi agli ordini di demolizione, previsti per tutte le strutture più alte di un metro. Avevano una passione, l’addestramento dei pappagalli. Hanno deciso di rispondere allo stritolamento seguito al 7 ottobre aprendo un piccolo negozio di volatili nella vicina Yatta. Tre esemplari mostrano la loro pregevole disposizione umana: si poggiano gentili sulle spalle o sul capo, rosicano i lobi delle orecchie, distribuiscono nobilissimi, commoventi baci fra uno svolazzo e l’altro nell’ampia prigione della caverna.

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