martedì 4 gennaio 2022
Su 18 simulazioni del Pentagono di eventuali conflitti con il coinvolgimento americano, per 18 volte le truppe Washington ne sono uscite battute
Miliziani filorussi nella cittadina di Gorlivka nel Donbass

Miliziani filorussi nella cittadina di Gorlivka nel Donbass - Ansa

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Sarebbe possibile difendere Kiev e Taipei in caso di invasione? Diciotto simulazioni di guerra («war games») condotte da alti ufficiali Usa non lasciano troppe speranze. I marine perderebbero 18 a zero contro la Cina e ne uscirebbero malconci anche contro la Russia. Lo confida in una rara apertura ai media Robert Work, vicesegretario alla Difesa americana fino al 2017. E Christian Brose, per anni consigliere militare di John McCain, non è molto più ottimista: «Taiwan sarebbe sconfitta in poche ore o in qualche giorno. Servirebbero settimane per poter combattere». Il giudizio vale anche per l’Ucraina. In ambedue le crisi, gli Usa stanno tenendo un duplice profilo.
Primo: puntano alla de-escalation. Le conferenze telematiche fra Joe Biden e Vladimir Putin lo confermano. Da allora, i toni di Putin si sono fatti più concilianti. Lo prova il documento rivolto ieri agli altri 4 membri permanenti del Consiglio di sicurezza, che neutralizzerebbe le atomiche di ognuno in caso di guerra. Il tavolo russo-occidentale della settimana prossima potrebbe svelenire ulteriormente il clima. Il secondo: anche con Xi Jinping, gli Usa puntano al dialogo ma, dietro le quinte si preparano al peggio, con misure decisamente marziali. Non parlano ancora di stanziare truppe permanenti in Ucraina e a Taiwan.
Da un lato, Biden ha garantito massimo supporto al presidente Zelensky, dall’altro ha appena escluso di voler installare basi in Ucraina. Costerebbero troppo e sarebbero un affronto alla Russia. Anche per Taiwan, non si va oltre la fornitura di armi. I 40 incursori delle forze speciali americane di stanza nell’isola stridono di fronte ai contingenti che presidiavano Formosa fino al 1972. Oggi come oggi, nell’eventualità di una guerra, il Pentagono sarebbe nei guai. La costa orientale degli Stati Uniti dista 4.860 chilometri dall’Ucraina. Undicimila km separano invece la costa occidentale da Taiwan, ubicata purtroppo a un tiro di schioppo dalla Cina (160 km). Sia chiaro, dopo il ritiro massiccio degli anni 90, gli americani stanno tornando in Europa. Hanno unità stabili da noi e in Germania e fanno ruotare due brigate fra la Polonia, la Romania, la Bulgaria e i paesi baltici. Parliamo in tutto di 60mila soldati, a fronte dei 150mila russi pronti a valicare il confine ucraino. In Asia, ci sono 57mila marines fra le Hawai e Guam, oltre alle guarnigioni giapponese (53mila) e sudcoreana (26.400). Il Pentagono può contare sulle infrastrutture aeronavali e terrestri delle Filippine e dell’Australia. Ha equipaggiamenti preposizionati sia in Oriente, sia in Europa, ammodernati però a ritmi insoddisfacenti. Spedire forze dal territorio metropolitano sarebbe problematico. I mezzi non basterebbero. Gli americani fanno ormai affidamento anche su navi e aerei civili, molto vulnerabili. Per proteggere le vie di comunicazione transatlantiche e transpacifiche occorrerebbe immobilizzare enormi mezzi difensivi.

L’intelligence giocherebbe un ruolo chiave. Ma i suoi indicatori sono tutti pessimistici.
Per Robert Work, «russi e cinesi hanno enormi possibilità di conquistare i loro obiettivi ben prima che gli americani abbiano il tempo di reagire massicciamente». Le forze statunitensi in Europa e in Asia sarebbero disarticolate con attacchi ciber-elettronici e con raid aerei diretti contro le infrastrutture terrestri e le navi. Guam, le Hawai e la flotta del Pacifico incasserebbero i durissimi colpi dei missili cinesi a lungo raggio. Presi in contropiede e già parzialmente neutralizzati in Europa in Asia, gli americani entrerebbero in guerra in condizioni di inferiorità, minacciati nei transiti aeronavali. In caso di conflitto su entrambi i fronti, la partita sarebbe già persa in partenza. Meglio negoziare.

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