mercoledì 18 giugno 2025
Ancora proclami, smentite e pretattica nella guerra a distanza tra Washington e Teheran. Il presidente Usa: potrei attaccare o no, nessuno lo sa. Khamenei dal bunker ribadisce: non ci arrendiamo
Donald Trump mercoledì mattina con i cronisti a Washington

Donald Trump mercoledì mattina con i cronisti a Washington - Reuters

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«Potrei attaccare o no. Non lo sa nessuno». Sembrerebbe una boutade. L’ennesima a cui Donald Trump ha abituato l’opinione pubblica. E, in parte, lo è. Del resto, l’ha pronunciata in un’occasione “informale”, sul prato della Casa Bianca, al termine della cerimonia per l’inaugurazione di due nuove aste porta-bandiera dopo avere scherzato con gli operai. «L’ultimo ultimatum» del tycoon alla Repubblica islamica, come l’ha definito, però, rivela anche il principio guido del proprio agire politico. L’unico che, retorica a parte, sia capace di ispirarne realmente la politica internazionale: l’imprevedibilità. Già prima di diventare presidente, nel 2016, aveva definito “l’eccesso di trasparenza” della Casa Bianca il problema principale degli Stati Uniti. «Diciamo tutto. Se mandiamo truppe, lo annunciamo con una conferenza stampa», aveva detto nel commentare lo stile di Barack Obama. Non che Trump sia parco nelle anticipazioni. Al contrario, ne dà troppe e spesso l’una contraddice l’altra. Certo, il dossier iraniano è tra i più spinosi per il leader repubblicano. Da una parte, la pressione israeliana perché Washington prenda parte all’offensiva. Le sue bombe anti-bunker – Gbu-57 – sono le uniche in crado di raggiungere gli impianti per l’arricchimento dell’uranio, nascosti in profondi nel sottosuolo. Dall’altra, però, si tratta di un affaire ad alto rischio per la tenuta del suo schieramento. Il coinvolgimento diretto di Washington in un conflitto, con mobilitazione di truppe sul campo, è proprio quanto il suo elettorato non vuole. La determinazione a non lasciarsi intrappolare in contese belliche estere è stato uno dei pochi punti fermi dell’Amministrazione. Finora. O, almeno, forse. Washington ha schierato tre portaerei in Medio Oriente e inviato i propri bombadieri e aerei cisterna nel sud della Spagna mentre il Comando centrale ha presentato i piani al presidente. Quest’ultimo, però, non ha sciolto l’ambiguità: «Perché Teheran non ha negoziato con me due settimane fa? Ora è tardi. Ma non troppo tardi». Di fronte al Giardino delle rose, ha dichiarato di avere «perso la pazienza» e ha intimato all’Iran di una «resa incondizionata. Khamenei non vuole farlo? Gli auguro buona fortuna». Ha detto anche di aver ricevuto la richiesta di un incontro alla Casa Bianca da parte delle autorità iraniane. Affermazione prontamente smentita dalla delegazione degli ayatollah alle Nazioni Unite. E di avere “gelato” Vladimir Putin, che più volte si è offerto come mediatore: «Si occupi della Russia». Il Cremlino si è affrettato a negare l’ultimo colloquio con il tycoon. Una solerzia spiegabile dalla volontà di non trovarsi in imbarazzo in caso di un eventuale attacco Usa. È vero, però, lo zar si è tenuto, in qualche modo, defilato. Non solo per evitare di rompere i ponti con Trump ma anche per non creare frizione con le nazioni del Golfo, con cui ha una stretta collaborazione nell’Opec. Il che lascia l’Iran senza un puntello fondamentale, come ha mostrato la sopravvivenza politica di Bashar al-Assad nel 2015. Teheran cerca, comunque, di mostrarsi forte: minaccia «conseguenze dolorose per il regime sionista», invia ordini di evacuazione agli israeliani speculari a che precedono i massicci bombardamenti di Tel Aviv sul suo territorio, rivendica un inesistente controllo dei cieli del rivale, rifiuta gli aut aut. Nel breve video-messaggio alla nazione, diffuso in tv ieri, la Guida suprema è apparsa provata. Le parole sono state, come al solito, tonanti: un intervento Usa «causerebbe danni irreparabili», il diktat di Trump «è inaccettabile» e «Israele ha fatto un grave errore e sarà punito». Finora, però, gli attacchi di Teheran non sono riusciti a colpire punti nevralgici dell’avversario: un ordigno su dieci – 40 su 400 – ha oltrepassato lo scudo. L’intensità del fuoco si è ridotta. I missili ipersonici scagliati – così hanno detto gli iraniani –, sono stati intercettati.
La distruzione c’è stata: diversi palazzi sono crollati nella parte centrale del Paese e 24 civili sono stati uccisi. La superiorità militare israeliana è evidente. I suoi caccia continuano a martellare la capitale, raggiungendo le infrastrutture critiche: dalle principali autostrade alla tv. E, nelle ultime 24 ore, l’Università Imam Hossein, centro di formazione delle guardie rivoluzionarie, il sito di fabbricazione di missili di Khojir e il comando della polizia.
Lo stesso quartier generale della sicurezza interna potrebbe essere stato centrato, anche se non ci sono conferme. Secondo, fonti iraniane, almeno 585 persone sono morte e oltre 1.300 sono state ferite. Soprattutto la tenuta di Israele non appare in discussione. Non può dirsi lo stesso del regime degli ayatollah, con i supermercati vuoti, l’esodo degli abitanti da Teheran e dalle altre metropoli e Internet bloccato «temporaneamente per ragioni di sicurezza». A 86 anni, Ali Khamenei cerca di conservare le redini dal bunker in cui è nascosto da giorni mentre decine di collaboratori politici, militari e scienziati sono stati eliminati nei raid israeliani. Alcuni esperti sostengono che abbia dovuto cedere la catena di comando ai Guardiani della rivoluzione. Da anni gli analisti danno per imminente la successione. Ma la Guida suprema non ha voluto mai farsi davvero da parte. Non si esclude che gli eventi lo costringano a farlo. L’atterraggio a Muscat, in Oman, di tre aerei di Stato Teheran, incluso quello presidenziale, ha fatto ipotizzare una fuga della leadership. A dare l’indiscrezione è stato il quotidiano israeliano Haaretz sulla base dei siti di tracciamento dei voli – e i principali media l’hanno confermata. Nessuno, però, si è azzardato a definire l’obiettivo della loro presenza. Potrebbe trattarsi di una delegazione negoziale incaricata di riprendere le fila della trattativa sul nucleare con gli Usa, interrotta domenica. Oppure dell’intento di alcuni vertici di lasciare la nazione prima di quel «cambio di regime» più volte evocato da Tel Aviv. La prima ipotesi è stata smentita dall’Iran. Alla seconda non ha fatto cenno. L’enigma, dunque, resta insoluto mentre l’escalation, inesorabile, va avanti.

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