mercoledì 2 ottobre 2019
Gli attentati degli islamisti shabaab e la mancanza di prevenzione in Africa
Somalia, terrorismo che non ci preoccupa
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Africom, il comando Usa per le operazioni militari in Africa, ha riferito di non aver subito vittime nell’attacco di lunedì dei miliziani islamisti di al-Shabaab contro la base aerea di Baledogle Airfield, a nord-ovest di Mogadiscio. In un comunicato, Africom ha detto di aver ucciso invece 10 membri del gruppo nei due raid compiuti poche ore dopo contro gli shabaab. Nessun civile è stato ferito o ucciso, sostengono le forze Usa, specificando che «al-Shabaab si serve di queste tattiche nel tentativo di distruggere i progressi fatti dal governo federale della Somalia e dagli Stati Uniti per espellere le violente organizzazioni estremiste dalle loro roccaforti».

Il fatto che non vi siano state vittime non sminuisce minimamente la gravità del doppio attacco portato lunedì a Mogadiscio, in cui sono stati colpiti un convoglio italiano e la base americana di Baledogle a nordovest della capitale, dalla quale partono i raid dei droni e delle forze speciali Usa dell’Africom.

L’azione ha avuto un duplice valore dimostrativo: ha infatti evidenziato l’efficienza militare dei miliziani somali che si etichettano come al-Shabaab e la loro capacità di agire contemporaneamente contro diversi obiettivi occidentali. Da anni la presenza militare italiana è costante seppur ridotta, e non si erano registrati finora incidenti gravi. Meno insoliti, invece, gli attacchi agli obiettivi americani: la stessa base, a 150 chilometri da Mogadiscio, era già stata colpita a febbraio. Dal 2015, nella cosiddetta Iswa, la Somalia sud-occidentale, il Daesh ha rafforzato progressivamente la sua presenza. Parallelamente gli shabaab, protagonisti di tante stagioni di terrore in Somalia e nel vicino Kenya, hanno prima consolidato le loro posizioni e poi subito una forte penetrazione da parte dello Stato islamico di Abubakr al-Baghdadi, soprattutto negli ultimi tempi dopo il ripiegamento di molti combattenti dalla Siria, Iraq e dalla Libia. Al punto che nei mesi scorsi si è parlato chiaramente di una scissione all’interno del movimento fondamentalista islamico dei “giovani” somali, con una componente sempre più rilevante di combattenti fedeli al califfo nero. E la presenza americana è finalizzata proprio alla caccia a questi esponenti del Daesh.

Da anni, ormai, gli esperti di terrorismo africano hanno disegnato una sorta di striscia del jihadismo che parte dalla costa occidentale, attraversa la Nigeria settentrionale, il Maghreb e finisce nel Golfo di Aden: cioè in quello stesso Corno d’Africa nel quale si sta palesando una sorta di Afghanistan. Una terra senza governo, dominata dai più forti. Come avveniva nelle terre afghane ai tempi in cui si dava ospitalità a Osama Benladen. E allora, come oggi, le azioni preventive erano inconsistenti. Così è avvenuto quando Baghdadi non dava “fastidio” a nessuno, costruendo però al confine tra Iraq e Siria quello che sarebbe poi diventato il sedicente Stato islamico, che in seguito ha fatto stragi a Parigi e altrove.

Quello che attualmente manca nell’Africa centrale è una azione di intelligence efficace. Lo hanno denunciato in molti, tutti inascoltati. La Francia mantiene una presenza militare significativa nelle zone in cui ha interessi economici da difendere, come nel Mali o nel Niger, dove l’uranio resta il bene più prezioso sul quale i jihadisti provenienti anche dalla Nigeria non devono riuscire a mettere le mani. L’Africom americano opera in Somalia, mentre da Gibuti conduce operazioni con i droni mirate sull’obiettivo del Daesh. Un’intelligence africana non esiste, come la presenza europea, in quanto Ue, resta insignificante. E questo ha portato molti ad usare, amaramente, un termine che in Occidente, giustamente, è diventato tabù: razzismo.

Un «razzismo sulla sicurezza» che però sembra esistere nei fatti. Finché il rifugio resta in Africa, il terrorismo sembra non spaventare. Come non spaventano i 2.100 morti per ebola fino a che restano relegati in Congo. L’allarme scatta allorché il pericolo giunge in casa. Come quando il “dormiente” Daesh è arrivato dalla Siria e dallo Yemen in Francia o Gran Bretagna o, in precedenza, al-Qaeda dall’Afghanistan fino alle Torri gemelle. Per qualcuno è semplicistico ridurre tutto alla vicinanza degli eventi, alla cosiddetta prossimità. Lo sarebbe meno se l’interesse diventasse la sicurezza globale e non quella dei mercati o dell’energia. Ma questa è un’altra storia.

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