martedì 10 settembre 2013
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Partito il 5 aprile diretto a Beirut, Domenico Quirico affronta la sua quarta trasferta giornalistica nella Siria in guerra. Il giorno successivo la redazione de La Stampa lo allerta che quattro giornalisti italiani appena messo piede in Siria, sono trattenuti da un gruppo combattente islamista. Domenico è consapevole che la Siria è pericolosa, i giornalisti muoiono e subiscono gli stessi patimenti e sofferenze che la popolazione locale è costretta a vivere da due anni di guerra civile. Date le circostanze e il pericolo di trovarsi in zona di combattimento, dunque con un telefono satellitare facilmente tracciabile, Domenico con la sua redazione concorda il silenzio delle comunicazioni per circa una settimana. Il tempo di realizzare il suo reportage e tornare in zona di sicurezza. Ad accompagnarlo nell’itinerario clandestino, c’è anche un amico belga col quale ha condiviso altre missioni, si chiama Pierre Piccinin, un professore, studioso di medioriente e islam, e scrittore.Passano i giorni e il silenzio aumenta. Buio totale.Su Domenico Quirico e Piccinin, la Siria si chiude come una trappola. Le notizie che arrivano da quel Paese lacerato dall’odio sono atroci: nessuno risparmia nessuno. Di prigionieri non se ne fanno, e i bombardamenti aerei falcidiano i civili livellando le case. Anche Domenico ha subito la stessa sorte?

Domenico è un giornalista che quando lavora su una notizia ha bisogno di sentirla fino in fondo, di viverla: occorre calarsi in ogni piega della storia se si vogliono tradurre e comprendere i fatti. Per lui, raccontare significa condividere e non solo con la testimonianza dei propri occhi. Un passo indietro. È il 30 gennaio scorso e alla notizia di una terribile decimazione di massa avvenuta nella città siriana di Aleppo, dove l’inviato della Stampa c’è stato altre volte, soffrendo con la popolazione locale disagi e bombardamenti, Domenico così scriveva sul suo quotidiano: «Bisogna espiare per i morti, bisogna riparare per i morti affinché ci riscattino a loro volta. Bisogna farlo soprattutto per i morti di Aleppo, città martire, carnaio o cloaca sovraccarica di storie dove soffrono, lottano e muoiono creature viventi». Proprio per questo, per «le storie», Domenico, come avvenuto tante altre volte nella sua vita di professionista dell’informazione era partito alla volta della Siria. Un viaggio affrontato nella consapevolezza dei rischi, perché il pericolo è sempre in allerta, precede ogni nostro passo quando è la guerra che bisogna raccontare. Allora perché percorrerlo quel tratto di strada, se dietro l’angolo ci attende una trappola? Proprio per quelle «storie da toccare con le mani», come fossero le sirene di Ulisse che chiamano a se perché devono essere viste, raccontate, rese vere, testimoniate anche a costo del proprio sacrificio, per gli altri. Per chi muore e anche per chi legge.

Come quella volta che Domenico Quirico sceglie di imbarcarsi su una carretta del mare piena di migranti africani per salpare di notte da una località di pirati del mare della Tunisia e affrontare il tragitto dei disperati che approdano a Lampedusa. Un viaggio da tradurre in parole, facendole diventare espressioni di qualcosa di vissuto e non lontane sensazioni apprese di seconda mano. Un reportage finito con il naufragio in mare, insieme a decine di disperati e un salvataggio estremo.

Per una ventina di giorni la notizia della scomparsa di Domenico è tenuta sotto embargo, si spera e si pensa a qualche difficoltà nelle comunicazioni.Passano i giorni, e nel tentativo di smuovere delle acque stagnanti si decide per un appello video diffuso il 2 giugno e affidato alle figlie di Domenico, Eleonora e Metella: «Siamo le figlie di Domenico Quirico, l’inviato del quotidiano La Stampa scomparso in Siria da 50 giorni. Nostro padre è nel vostro Paese per raccontare all’Italia il dramma della Siria e del popolo siriano. Aiutateci a ritrovarlo per riabbracciarlo presto»La grande angoscia della famiglia Quirico ha un sussulto cinquantotto giorni dopo la sua scomparsa, quando giovedì 6 giugno verso mezzogiorno squilla il telefono di casa. A rispondere è la moglie Giulietta. Una voce lontana, esile, che sgorga forte emozione mista a sofferenza fa in tempo a dire: «Sono Domenico...», poche parole. Neppure il tempo per un più profondo respiro di sollievo e la telefonata si interrompe. Quello stesso giorno nel pomeriggio, in Belgio anche in casa di Piccinin squilla il telefono, Pierre racconterà al padre qualcosa di più. Ecco, dopo tanto tempo almeno si sa che sono vivi. Ma ancora non tornano. Ma la speranza è tenace, paziente come le promesse. Quando più non si aspettano gli altri, pensando a quei giorni, dai ricordi emergono le parole che Domenico aveva donato alla moglie nella dedica del suo ultimo libro «Gli ultimi - La magnifica storia dei vinti». Parole prese da una poesia di Konstanti Michailovic Simonov: «Aspettami, Giulietta, e io tornerò ad onta di tutte le morti». Domenico è tornato dopo 150 giorni terribili, queste le sue prime parole rivolte al direttore Mario Calabresi: «È stata una terribile esperienza. Ma sai qual è la mia idea di giornalismo. Bisogna andare dove la gente soffre e ogni tanto ci tocca soffrire come loro per fare il nostro mestiere».

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