giovedì 12 febbraio 2015
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I grandi viali che circondano il centro di Donetsk sono quasi completamente vuoti. Le saracinesche dei negozi di lusso, dei caffè e dei ristoranti sono tutte abbassate. Fare la spesa è un’impresa. Le banche sono chiuse, non si può prelevare contante, né pagare con le carte di credito. Per questo, nei pochi mercati municipali rimasti aperti si prova a barattare vestiti, orologi, piccoli elettrodomestici, in cambio di farina, carne e verdura, gli unici generi alimentari che è ancora possibile reperire intorno ai quartieri dell’area metropolitana. In lontananza, lo spaventoso fracasso dei bombardamenti, esplosioni che giorno e notte illuminano i sobborghi di Donetsk. Sono la testimonianza più cruda dei combattimenti che senza sosta imperversano lungo tutta la linea della periferia nordoccidentale della città. Anche nella giornata di ieri almeno sei civili sarebbero rimasti uccisi in seguito a una serie di colpi di artiglieria che hanno centrato in pieno la stazione centrale degli autobus. Un altro è morto per un bombardamento d’artiglieria pesante su un ospedale. «Guarda cosa ci sta facendo Poroshenko – urla Tatiana Kobernik, una delle inservienti della stazione, mentre cerca di rimuovere un’enorme macchia di sangue rimasta sull’asfalto –. Non ci capisco più niente. Una volta sono i russi, un’altra gli ucraini. Un giorno penso che farei bene a scappare verso Kiev, un altro che è meglio restare. La verità è che non riesco ad andarmene: questa è casa mia». Basta dare un’occhiata alle finestre e alle luci spente, appena passate le quattro del pomeriggio, per farsi un’idea delle migliaia di persone che hanno già lasciato Donetsk.  Si calcola che dall’inizio del conflitto ad oggi siano almeno 400.000 i civili che hanno deciso di abbandonare la città. Gran parte di essi ha deciso di dirigersi verso l’interno ucraino, mentre soltanto un gruppo minoritario ha scelto di spostarsi nella zona russa. La città, intanto, resta nel pieno controllo delle forze militari separatiste. A Donetsk è già in vigore l’orario di Mosca e camminando per il centro, fra decine di uomini armati, è facile riconoscere le pattuglie di origine cecena arrivate direttamente da Grozny per dare manforte alle milizie locali.  L’arrivo di nuovi soldati dall’ex frontiera sovietica prosegue senza sosta, in un’opera di militarizzazione totale delle centinaia di chilometri quadrati che i ribelli hanno conquistato, villaggio dopo villaggio, nel corso delle ultime settimane.  «Io non credo nella pace, l’esercito ucraino ci sta portando soltanto morte e disperazione, non capisco per quale motivo non vogliono decidersi a lasciarci in pace e tornarsene a Kiev». Il parere di Oksana, una studentessa diciottenne che parla appena l’inglese, è identico a quello di tanti fra quelli che hanno deciso di restare. Si tratta dell’effetto più lampante di un lavoro profondo che i mezzi di comunicazione filorussi stanno portando avanti da mesi nell’area, un vero e proprio lavaggio del cervello che propone la tesi di una battaglia ribelle difensiva in risposta al tentativo del governo centrale ucraino di imporre la presenza della Nato. Mentre a Donetsk continua un’estenuante battaglia di posizione, in queste ore lo scontro più aspro si combatte nella sacca di Debaltsevo. La città, snodo ferroviario strategico a una manciata di chilometri dal confine russo, vive una situazione umanitaria catastrofica. Gli 8.000 soldati del contingente ucraino che provano a difendere la zona sono infatti ormai completamente accerchiati dalle milizie ribelli, un’operazione che solo ieri ha provocato la morte di almeno 19 militari ucraini e il ferimento di altri 78. La situazione della popolazione civile resta gravissima, nonostante il corridoio umanitario aperto appena tre giorni fa. Un’eventuale caduta di Debaltsevo, che ormai sembra inevitabile, permetterebbe ai filorussi di spostare l’attenzione su Mariupol, il porto ucraino sul Mare d’Azov la cui conquista potrebbe porre una parola decisiva sul controllo dell’intera regione del Donbass.
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