domenica 17 luglio 2016
​​Nella Molenbeek di Nizza crescono gli aspiranti estremisti che partono per la Siria e tornano pronti a colpire. Per anni le istituzioni hanno finto di non vedere.
Ariane, il quartiere dimenticato di Nizza
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«Pas de photo, monsieur, pas de photo! Êtes-vous fou?». Ha ragione Fernand. Bisogna essere matti o incoscienti a scattare foto in questo quartiere che rassomiglia terribilmente a Scampia, a quei falansteri di cemento vaiolato – torri e “barre” in monotona sequenza – a quelle larghe e desolate avenue popolate di cartacce, rifiuti, carcasse di lavatrici, mobili dismessi che contrassegnano le banlieue di tutto il mondo. Matti e incoscienti, perché cento occhi ti stanno osservando, occhi cupi, occhi tutti maschili, perché di donne in giro non ce n’è neppure una e allora tu capisci che qui sei davvero lo straniero, l’intruso, il pericolo. Benvenuti all’Ariane, la Molenbeek di polvere e cemento di Nizza, la sua Cité Soleil sulla riva del fiume Paillon a due passi dalla centrale nucleare, dove nascono e crescono i velléitaires, gli aspiranti jihadisti che da qui partono alla volta della Siria e finalmente forgiati e addestrati ritornano per colpire al cuore i kafir e la loro civiltà corrotta, per uccidere, per consumare l’odio che i maestri della dissoluzione gli hanno insegnato grazie ai soldi dell’Arabia Saudita e degli Emirati e che la dilagante propaganda attraverso Internet gli ha instillato giorno dopo giorno.  Da qui, da questo operoso opificio del jihadismo che secondo alcune stime può vantarsi di aver distillato non meno del 10 per cento dei 600 combattenti della Côte d’Azur, è passato anche Bouhlel, qui al bar Le Galois si sedeva a bere alcolici e a rimuginare sulla sua famiglia andata in pezzi, qui, fra lo scheletro di un’automobile bruciata e abbandonata da tempo immemorabile e l’aria quasi palpabile dell’illegalità diffusa brulica e cresce il fondamentalismo militante delle banlieue, lo stesso che in Belgio si era incistato in un paio di quartieri che polizia e autorità per anni hanno finto di non vedere e di non conoscere a patto che i maghrebini, i maliani, i senegalesi, i nuovi arrivati se ne stessero tranquilli e non deturpassero il volto opulento della città. Ed è quello che in buona sostanza si è fatto anche qui a Nizza, capitale di quella Côte d’Azur – il nome glielo affibbiò il poeta Stéphène Liégeard nel 1887 intitolandole un romanzo – che ha preferito nascondere le proprie magagne urbanistiche come polvere sotto il tappeto, rimuovendo dalla coscienza collettiva la sua impresentabile Cité islamizzata così vicina eppure così lontana dalla Promenade des Anglais, dai grandi alberghi, dai casinò dove le quattro mafie riconosciute (tre italiane, la quarta sono i marsigliesi) pompano denaro, riscuotono il pizzo e taglieggiano ogni esercizio commerciale, ma dove la vita scorre gioiosa e serena. Fino a quando qualcuno non si mette alla guida di un Tir e semina strage. Forse Bouhlel era prevalentemente un soggetto psicotico, ma il suo cellulare ci riporta a un nome. Il nome di colui che fra i jihadisti nizzardi è stato considerato il re dell’Ariane. Si chiama Omar Diaby, oggi è quarantunenne, originario del Senegal. L’antiterrorismo francese lo conosce bene: dopo cinque anni di carcere e quattro di reclutatore a tempo pieno, nel 2013 è fuggito in Siria per insediarsi nelle file di al-Nusra, il braccio armato di al-Qaeda, non prima di essersi proclamato imam di Nizza. I velléitaires che ha forgiato con le proprie mani mentre lavorava in un chiosco halal del quartiere e contemporaneamente spacciava hashish e marjuana si contano a decine. Lui personalmente li ha plasmati, trasformando piccoli delinquenti, ladruncoli e casseur in giovani cellule ardenti di odio e di fervore religioso. A Latakia, enclave costiera siriana, si è portato dietro una trentina di adepti dopo aver cambiato nome: da Diaby a Omsen, detto l’Emiro.  «La polizia – mi spiega Fernand, che prudentemente evita di percorrere due volte la stessa strada – qui non mette mai piede. A meno che non ci sia una rissa grave. Una volta è accaduto, si è sparato. Un maghrebino è morto, è successo il finimondo, come in America...». In realtà qualcosa è stato fatto. Quattro o cinque sale di preghiera sono state chiuse a causa delle violente invettive nella preghiera del venerdì. «Ma è poca cosa – dice Fernand –: sa cosa disse una volta il sindaco di Nizza a proposito dell’Ariane? Disse: “La metastasi non deve superare il boulevard Pasteur”». Tutto chiaro. Il grande viale che separa l’Ariane dalla città era il confine quasi metafisico fra il mondo per bene e quello per male. Salvo poi accorgersi che nella fucina dell’Ariane, a dispetto delle buone intenzioni, della creazione dell’Espace Django Reinhardt o del Teatro Lino Ventura c’era un altro mondo, totalmente estraneo e totalmente dimenticato. Le Cité islamizzate non nascono per caso, come il nichilismo disperato di chi affonda nell’assenza di senso e nell’emarginazione che il lato ricco della città gli infligge. Lasciamo l’Ariane dietro di noi. È una bella giornata, nonostante i 35 gradi all’ombra. «Hai notato che né Marsiglia né Tolone hanno speso una sola parola di solidarietà verso Nizza e i suoi morti? – dice un vecchio amico che risiede da anni in città e che abita a cento metri dal luogo in cui il Tir di Bouhlel si è finalmente fermato crivellato dai proiettili della polizia – E sai perché? Per non irritare le loro robuste comunità islamiche. Per moltissimi di loro, anche se non te lo dicono, la strage di venerdì è la victoire de l’islam, niente di più, niente di meno». Forse è un po’ vero. Da qualche ora la Promenade è stata riaperta al pubblico. L’omaggio fatto di fiori, di lumini e di piccole strisce di parole continua. Qualcuno ha provato ad andare in spiaggia. Una signora si lagna a gran voce: «La polizia mi ha perquisito prima di lasciarmi andare in cabina a cambiarmi. Gli ho detto: perché non l’avete fatto con il camion dei gelati?».
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