domenica 30 agosto 2015
A 6 mesi dalla cacciata del califfato, Yazidi, cristiani e musulmani votano in assemblea e tentano di ricostruire il dialogo tra siriani. Reportage di Mauro Mondello
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Un’infinita linea di polvere si alza lungo i tredici chilometri che separano il villaggio turco di Suruç dal posto di frontiera di Mursitpinar. Intorno al reticolato che divide il territorio siriano dalla Turchia è ancora possibile notare i resti del massacro del 25 giugno scorso, quando una missione suicida ha lasciato sul terreno oltre 200 vittime civili, uomini e donne di Kobane rimasti colpiti a morte dall’attacco dei miliziani dello Stato islamico (Is). «Due giorni di terrore, ecco cosa sono stati – racconta Leyla, una delle decine di giovani donne dell’Ypg, l’Unità di protezione popolare che ha scelto di partecipare attivamente alla resistenza curda contro l’Is –. Sono entrati casa per casa, cominciando dalla zona abitata a pochi passi dal confine, uccidendo ogni persona che si trovavano davanti. Per 48 ore siamo stati ricacciati dentro l’incubo dell’occupazione islamista e si è scatenato il caos: a centinaia scappavano verso la frontiera turca, ma venivano respinti, mentre le nostre milizie si ricompattavano. Fortunatamente siamo riusciti a riprenderci per la seconda volta la nostra città, ma l’attacco di giugno è un segnale di allerta importante: non possiamo abbassare la guardia». Oggi, a sei mesi dalla riconquista di Kobane, la resistenza curda si batte strenuamente per rimettere in piedi una città ridotta ad un cumulo di macerie. 

Una veduta di Kobane, in primo piano la bandiera turca (Reuters) Percorrendo a piedi le vie del villaggio, accompagnati da una scorta armata di volontari, si cerca di restare a distanza di sicurezza dalle mine che le brigate dello Stato islamico hanno sparpagliato intorno alle vie di collegamento fra il sud della città e le decine di piccole aree rurali a una manciata di chilometri da Kobane. Fra carcasse di automobili distrutte ed edifici divelti dalle bombe, si scorgono le barricate di sabbia costruite dai volontari a difesa delle postazioni militari di controllo. L’odore di calcestruzzo è fortissimo, mentre cumuli di fumo si alzano dalle ceste di ferro dentro le quali i gruppi di guardia destinati al turno di notte cucinano il rancio per la cena. Prima dell’avanzata islamista, Kobane era considerata uno degli snodi commerciali più importanti fra Siria e Turchia, con oltre 50mila abitanti ed un enorme passaggio giornaliero di merci, da un lato all’altro della frontiera.  L’assedio dell’Is alla regione settentrionale del Rojava (l’area che comprende tutto il Nord siriano al confine con la Turchia) ha provocato un esodo di 400mila persone in fuga dalla violenza. Solo nell’ultimo mese, secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani, il Califfato ha compiuto 91 esecuzioni, 3.156 in tutto dalla sua auto- proclamazione.  Da Kobane sono scappati in 20mila. «Abbiamo deciso di tornare a casa, di partecipare attivamente alla costruzione di un nuovo modello di democrazia – racconta Haider Sherzad, 44 anni e tre figli, una vita passata in un piccolo negozio di spezie, farine, semi e sapone nel mercato, ormai disintegrato, di Kobane –. Non abbiamo avuto scelta, in verità. Le condizioni di vita nei campi profughi turchi erano insostenibili: abbandonati in tende fatiscenti, spesso senza energia elettrica, senza acqua, con il cibo razionato. Non accuso il popolo turco, che ci ha accolto con cuore e come meglio poteva, ma non voglio rassegnarmi a vivere per sempre in fuga». La resistenza curda di Kobane è sfociata in un modello di democrazia diretta del tutto inedito nel panorama politico del mondo arabo, un sistema laico basato sull’uguaglianza di genere e che si sviluppa attraverso una serie di riunioni pubbliche durante le quali tutti i cittadini possono intervenire sui temi relativi all’amministrazione dei beni comuni.  È intorno a questo meccanismo partecipativo che la rivoluzione di Rojava vuol fondare le basi di una realtà comunitaria nella quale possano convivere cristiani, curdi, arabi, turkmeni, ceceni, armeni, yazidi, popolazioni che per decenni hanno vissuto l’una al fianco dell’altra ignorandosi o, ben peggio, fomentando un clima di tensione etnica. Un’utopia che spaventa l’Is, pronto a una nuova avanzata verso nord. E si scontra con la dura resistenza del governo turco di Recep Tayyip Erdogan.  Il presidente della Turchia, alle prese con una profonda crisi politica interna dopo 13 anni di ininterrotto dominio, ha più volte manifestato l’indisponibilità di Ankara ad accettare che dal conflitto siriano possa emergere un’entità nazionale autonoma curda. Da qui l’escalation di violenza esplosa in tutta l’area orientale del Paese. Il che potrebbe riaprire su larga scala l’ormai ultradecennale conflitto fra l’esercito turco ed i ribelli del Pkk, il Partito dei lavoratori curdi.
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