sabato 7 novembre 2020
È l’«every-man» che dorme dentro il sogno americano. Ma dietro quello sguardo così normale si cela l’ambizione più grande. Nel 1988 il primo fallimentare tentativo di correre per la Casa Bianca
Joe Biden, lo "zio d'America" che deve rimettere insieme un Paese

Reuters

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State attenti allo Zio d’America. Perché dietro quello sguardo a volte un po’ sperduto come quello di Mister Dick, lo svagato personaggio di David Copperfield innamorato degli aquiloni, si nasconde un uomo che per quarantasette anni ha bighellonato nei corridoi del potere, di cui conosce e riconosce ogni sfaccettatura e ogni intrigo e da cui ha dato sempre l’impressione di tenersi alla larga. Quando nel 1973 esordì alla Camera Alta come senatore del Delaware era ancora uno Zelig in mocassini e giubbottino di renna, in un’America che aveva già prematuramente seppellito i propri eroi maledetti come James Dean, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, con il dollaro che si svalutava del 10%, con l’ultimo soldato americano che lasciava il Vietnam e Richard Nixon che cominciava a sprofondare nella palude del Watergate nel quale sarebbe naufragato.

L’allora trentenne Joseph Robinette Jr invece aveva appena imparato a stare a galla. Figlio di Joseph Senior – un discendente di ugonotti emigrati in Inghilterra – e dell’irlandese Catherine Finnegan, era nato a Scranton in Pennsylvania il 20 novembre del 1942, lo stesso giorno in cui la Warner Bros lanciava sugli schermi Tweety Bird, meglio noto da noi come il canarino Titti. Il padre vendeva automobili usate e si era trasferito a Claymont nel Delaware e lì, nell’ex colonia olandese divenuta poi il primo Stato a ratificare la Costituzione, Joe si laurea in legge nell’università di Newark.

Nel 1969 è ammesso all’albo degli avvocati, ma il titolo di “Juris Doctor” gli promette una carriera modesta quanto noiosa. Lui stesso ha ammesso: «La giurisprudenza è la cosa più noiosa che mi sia capitata di affrontare nella vita». Per anni guida una vecchia auto presa in prestito dal padre e – incredibile per un irlandese – è astemio. Non sorprendiamoci: quell’indole moderata che si porterà addosso fino ai giorni nostri già s’intravvedeva negli incendiari anni Sessanta, quando mezza America sfilava per protesta contro i bombardamenti in Vietnam e il venticinquenne Joe declinava l’invito a parlare in assemblea all’università di Syracuse: «Meglio mangiare una pizza», pare sia stata la sua risposta, ormai passata alla storia. Del resto nel ’68 era già sposato con una ragazza di nome Neilla Hunter, incontrata proprio a Syracuse, che gli avrebbe dato tre figli, Joseph (detto «Beau»), Robert Hunter e Naomi.

«Character» quasi perfetto a mezza strada fra Happy Days e American Graffiti, ancorché affetto da una leggera balbuzie a scuola (lo chiamavano «Dash», trattino, perché non completava le parole) il giovane Biden non disdegna affatto la politica. Tant’è che dopo essersi messo alla prova come consigliere di contea e come rappresentante di classe al college gareggia subito nel massimo girone, correndo per il seggio senatoriale del Delaware fra le file dei dem. A sorpresa vince. È ambizioso, punta in alto, è amico di tanti repubblicani come John McCain e ha una dote: una bonomia cameratesca che disinnesca puntualmente ogni sospetto. Perfino gli avversari politici prendono l’abitudine di sottovalutarlo. È l’“everyman” che dorme dentro il sogno americano, l’uomo qualunque che non desta preoccupazioni, l’amico fidato al quale puoi confidare i tuoi guai.

Ma il destino gli gioca un tragico tiro mancino. Mentre sta compulsando i dossier che dovrà affrontare a Washington, la moglie muore in un incidente stradale assieme alla figlia di tredici mesi Naomi. «Beau» e Hunter rimangono gravemente feriti. Stavano andando a comprare un albero di Natale. Sarà la sorella Valerie ad aiutarlo a crescere i sopravvissuti. Nel 1977 si è risposato con Jill Tracy Jacob, un’insegnante di discendenza italiana (il cognome d’origine suonava «Giacoppo») più giovane di lui di nove anni, figlia di un cassiere di banca. Non è stato un incontro casuale: sono stati i fratelli di Joe a combinare quel “date” con una signora divorziata e madre di due figli che, nel senatore tanto a modo e così lontano dai rutilanti modelli newyorkesi, ha riconosciuto il gentleman che aspettava. Tuttavia Joe ha dovuto chiederle la mano non una ma ben cinque volte, prima che Jill accettasse di sposarlo. Gli darà una figlia, Ashley Blazer e si occuperà degli altri due come fossero i suoi. Lui amerà quel focolare domestico a tal punto da tornare ogni sera a casa a Wilmington per trentasei anni invece di risiedere a Washington, come fanno abitualmente tutti i parlamentari. Al settemillesimo viaggio sui treni della Amtrak gli è stata intitolata la stazione ferroviaria della capitale del Delaware.

Ma dietro quello sguardo così «americano» si celava l’ambizione più grande. Quella della Casa Bianca. A quarantasei anni, lontano dagli azzardi liberal che erano costati assai cari ai democratici, Joe prova a fare il grande salto affrontando le primarie. E qui, siamo nel 1988, fa un rovinoso scivolone. Uno dei suoi discorsi è clamorosamente copiato da quelli del laburista britannico Neil Kinnock. La scopiazzatura, come la menzogna, è forse il peccato più «unamerican» che possa esistere: le bugie di Nixon, come poi quelle di Clinton, i plagi di Melania Trump agli occhi dell’opinione pubblica sono imperdonabili. Biden, che già gli stessi colleghi di partito chiamano «windbag» – che sta per «trombone» – per la sua fluviale oratoria in stile hamiltoniano zeppa di frasi sgangherate e di inevitabili gaffe, sembra un uomo finito. Del resto il 1988 è davvero l’“annus horribilis” per Joe Biden: oltre all’infortunio politico c’è il ben più grave ricovero per un aneurisma. Lo danno per spacciato, riceve l’estrema unzione. Per sette mesi è confinato in ospedale. Ma sopravvive. E con lui la sua carriera.

Quando torna in Senato si rivela perfetto in quel manzoniano «sopire-troncare-sopire»: fa faville come presidente della Commissione Giustizia nei burrascosi rapporti con la Corte Suprema, si allinea alla dottrina Bush votando per l’invasione dell’Iraq, appoggia il giro di vite che l’amministrazione Clinton imprime nei confronti dei reati comuni e plaude all’intervento nei Balcani contro Milosevic. E soprattutto si accoda, lui che è cattolico, alla new wave obamiana, senza fare un fiato sulla corsa a ostacoli verso la libertà assoluta di aborto promossa dal presidente. E dire che amava e ama tuttora far sapere di girare con in tasca il rosario. Ma tant’è… ed è proprio questo che molti cattolici americani gli hanno rimproverato. «Non lo sapevate? Si adatta come l’acqua al recipiente», malignano i colleghi.

La tentazione del potere supremo lo riagguanta nel 2004, quando John Kerry gli fa balenare la possibilità di prenderselo come runnig-mate. Ma lui non ci sta, rinuncia. E fa bene. Kerry viene sonoramente sconfitto da George W. Bush. Il «windbag» Joe rimane, come si direbbe dalle nostre parti, una «riserva della Repubblica». Ma il destino – di nuovo – ha deciso diversamente. Nel 2008 ci riprova e di fronte al duello fra Barack Obama e Hillary Clinton capisce al volo che non ha alcuna speranza: il caucus dell’Iowa lo stende, assegnandogli uno 0,93% che è la peggiore delle umiliazioni per il sessantaseienne recordman dei senatori. Potrebbe ritirarsi, godersi la serenità della pensione e della terza età, ma a sorpresa Obama lo recupera. Nella sua vittoriosa galoppata verso la nomination, il candidato “colored” che ha già conquistato la working class dei Grandi Laghi e dello stanco regno dell’automobile, ha bisogno di una figura totalmente diversa dalla sua: un bianco, moderato, cattolico, rassicurante e soprattutto assai poco ingombrante. Un vicepresidente perfetto, un camerlengo ideale per la Casa Bianca che non faccia ombra all’astro nascente che è esattamente l’opposto di Joe: ardito, elegante, intellettuale e anche sexy.

È così che il veterano del Senato (solo di quello, visto che il servizio militare non lo ha mai fatto), sei volte riconfermato e mai un’elezione perduta, diventa vicepresidente. Posizione nella quale si accomoda per due mandati, arrotondando il profilo di Zio d’America e schivando pettegolezzi e scandali (come quello del figlio Hunter con le mani in pasta in Ucraina). In cuor suo Joe aveva già designato il proprio successore: era quel figlio primogenito pluridecorato in Iraq e già attorney general del Delaware, in procinto di candidarsi alla carica di governatore. Sarebbe stato un tandem scintillante: lui, Joe Biden, in corsa finalmente per la presidenza del 2016, “Beau” pronto al balzo da gigante in politica. Ma anche qui il destino si svela funesto. Il figlio prediletto viene colpito da un tumore al cervello. Sul letto di morte raccomanderà a Joe di candidarsi ugualmente per la corsa alla Casa Bianca. Ma il posto di riguardo è già occupato da Hillary Clinton. Anche Obama è freddo. Biden rinuncia. E con il senno di poi fa bene: l’uragano Trump ha spazzato via la paleolitica candidata democratica.

E veniamo ai giorni nostri. Biden, la cui cocciutaggine è impareggiabile, ci riprova. In realtà è sfiatato, l’appellativo di “Sleepy Joe” che Trump gli affibbia è azzeccatissimo e lui stesso naviga fra una gaffe e l’altra. Ha settantasette anni e lo si guarda con tenerezza mista a rabbia: possibile che non si sia trovato un candidato migliore? In realtà ha ragione Obama, che di fatto è il suo king maker: meglio lui che Bernie Sanders, la cui sconfitta sarebbe sicura. Ripescato per la seconda volta dal bugigattolo dei vecchi arnesi in disuso, lo Zio d’America risorge fra i fragori del #metoo, del politicamente corretto, del Black Lives Matter, dei suprematisti, dei complottisti del QAnon. Tutte cose che non fanno parte del suo mondo. In compenso prende 72 milioni di voti, mai nessuno candidato è giunto a tanto. Merito della sua normalità? Colpa dei metodi da gangster del tycoon dal lungo ciuffo giallo? Non si saprà mai bene. Ma alla fine ha vinto lui, «Uncle Joe», l’uomo tranquillo che tutti vorrebbero avere come vicino di casa.

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