venerdì 20 giugno 2025
Il ministro Araghchi ai rappresentanti di Gran Bretagna, Francia, Germania e Ue: stop agli attacchi, non rinunciamo all'arricchimento. Trump: «Difficile che gli europei siano utili»
Uno dei palazzi colpiti ad Haifa nel raid iraniano

Uno dei palazzi colpiti ad Haifa nel raid iraniano - Reuters

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La scenografia è stata quella consueta. Migliaia di persone si sono radunate davanti all’Università di Teheran sventolando le bandiere dell’Iran e di Hezbollah. Nel pieno dell’offensiva israeliana, il regime ha trasformato la preghiera del venerdì nella giornata «della rabbia e della resistenza». L’esibizione di una forza che, a una settimana dall’inizio dei raid, tanti, dentro e fuori il Paese, mettono in discussione. Ali Khamenei non ha potuto guidare l’atto per evidenti ragioni di sicurezza. Nascosta in un bunker, la Guida suprema si è limitata a incitare a combattere il «nemico sionista», martellato da sud a nord da diverse batterie di missili che sono riuscite a oltrepassare lo scudo Iron Dome e a raggiungere Tel Aviv, Gerusalemme, Ber Sheva e Haifa.

Quest’ultima ha riportato i danni maggiori: tra i numerosi palazzi colpiti anche la moschea di al-Jarina, dove era in corso la preghiera. Una 51enne è morta per un attacco di cuore , altre 44 persone sono state ferite, di cui tre in modo grave. L’aviazione di Tel Aviv, da parte sua, ha continuato le incursioni su decine di siti militari e impianti nucleari, tra cui quello di Bushehr, dove si trova l’unico reattore attivo grazie al supporto di Mosca. Gli almeno 250 tecnici russi impiegati nella struttura non sono stati evacuati, ha fatto sapere ieri il Cremlino. Un implicito avvertimento a Israele. L’Iran, colpito ieri da un sisma di 5.2 sulla scala Richter, ha subito perdite pesanti. Il suo leitmotiv ufficiale resta, però, il «nessun cedimento» tuonato più volte da Khamanei. Il ministro degli Esteri, Abbas Araghchi, lo ha ribadito in un’intervista alla tv di Stato Irib: «Non ci sarà alcun negoziato finché Israele non metterà fine ai bombardamenti». Affermazioni ripetute poco dopo a Ginevra, alla riunione del Consiglio Onu per i diritti umani. La lite scoppiata al Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite è indicativa della tensione. Il rappresentanti iraniano Amir Saeid Iravaniha fatto una lunga invettiva contro lo Stato ebraico, mostrando le foto di bambini uccisi negli attacchi. Il gesto ha mandato su tutte le furie l’omologo israeliano Danny Danon che gli ha intimato di «finire la sceneggiata». Dietro il muro contro muro, però, le posizioni sono più sfumate.

Negato a parole, il negoziato – più o meno esplicito e sempre sul filo del rasoio – è in corso. Lo stesso Araghchi si è presentato alla riunione a porte chiuse convocata dagli “E3”, ovvero con i rappresentanti di Gran Bretagna, Francia, Germania più l’Alta rappresentante Ue, Kaja Kallas. Al termine le parti hanno deciso di vedersi ancora. «Siamo disponibili a proseguire i colloqui con gli europei», ha sottolineato Araghchi dopo quattro di discussioni, interrotte da una pausa chiesta dalla delegazione iraniana «per consultazioni». L’Iran resta fermo sull’arricchimento ma è aperto a possibili «concessioni» abbassando il livello. Un nodo da sciogliere in un eventuale negoziato con gli Usa, per la cui ripresa hanno premuto i rappresentanti europei. Teheran, però, non è disposta a sedersi al tavolo prima della fine dell’offensiva israeliana. I contatti con Washington, in realtà, – come confermato anche ieri da Donald Trump – non si sono mai interrotti. Sia quelli diretti con l’inviato speciale per il Medio Oriente, Steve Witkoff. Sia quelli indiretti. Attraverso i vicini del Golfo, in primis, preoccupati dall’eventuale blocco dello Stretto di Hormuz, per cui passa un quinto del petrolio globale, come più volte minacciato da Teheran. Ma anche triangolati con la Russia e l’Europa. In questo contesto si inquadra l’intento negoziale promosso ieri dai leader europei. Trump, però, non sembra disposto a farsi scippare la parte del mediatore. «Gli iraniani parlano solo con me. Dubito che gli europei siano d'aiuto». Non ha escluso la possibilità di «sostenere un cessate il fuoco» ma ha precisato: «E' difficile fermare i raid di Israele». Il presidente continua a non dare una risposta definitiva sulla richiesta israeliana di intervenire al suo fianco per distruggere il sito di Fordow, la più segreta e promettente delle fabbriche di arricchimento dell’uranio. Dalla sua scoperta, nel settembre 2009, in violazione delle risoluzioni Onu, a venti metri di profondità nella montagna a ridosso di Qom, è diventato l’obiettivo degli obiettivi, raggiungibile solo con la bomba GBU-57, nelle mani esclusive degli Usa. Almeno formalmente. Da giorni, il capo della Casa Bianca annuncia e poi smentisce l’attacco imminente all’Iran. La decisione definitiva arriverà entro due settimane. «Al massimo ha ribadito ieri».

Nel frattempo, gli Usa hanno imposto nuove sanzioni a Teheran mentre Benjamin Netanyahu assicura: «Fermeremo il nucleare iraniano, con o senza gli Stati Uniti». Già due giorni fa, il premier aveva accennato al fatto di avere «il potere di distruggere Fordow». E, ieri, fonti della sicurezza, hanno confermato che il raid potrebbe avvenire effettivamente entro il fine settimana. Non stupisce, dunque, che molti esperti ipotizzino un “appalto” da parte di Trump all'alleato israeliano della tecnologia e relativa responsabilità militare per l’attacco a Fordow. Un’azione la cui efficacia strategica appare inversamente proporzionale all’impatto simbolico e politico. Fonti del Mossad e dell’intelligence statunitense sospettano che il “materiale sensibile” sia stato da tempo spostato altrove dagli ayatollah. La demolizione di Fordow, però, diventerebbe la “missione compiuta” da esibire per Tel Aviv e, indirettamente, Washington. A questo punto si tornerebbe allo status quo di tensione latente o si passerebbe a una deflagrazione regionale? La risposta è quantomai incerta. Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz ha ribadito che «la guerra sarà lunga». Trump. da parte sua, continua a nicchiare.

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