venerdì 9 dicembre 2022
In Turchia è arrivato l’inviato speciale di Putin, mentre Washington trasferisce mezzi militari nel nord e preme su Ankara. Che tratta la contropartita allo stop alla quinta invasione in sei anni
Un combattente delle milzie curde delle Ypg nel nord della Siria al confine con la Turchia

Un combattente delle milzie curde delle Ypg nel nord della Siria al confine con la Turchia - Ansa

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Sembra incredibile, quasi un paradosso date le circostanze, ma c’è un fronte sul quale Russia e Stati Uniti sono costretti a collaborare: fermare l’offensiva di terra del presidente turco Reecep Tayyip Erdogan nel nord della Siria.

Il numero uno di Ankara da mesi prospetta una “operazione militare speciale” contro le presenze curdo siriane oltre il confine. Per essere precisi, si tratterebbe della quinta incursione nel giro di sei anni e dal nome scelto, ossia «Spada ad artiglio», suona molto come una resa dei conti finale.

Ma stavolta sui piani del “reis” di Ankara pesa una situazione internazionale già abbastanza delicata e il fatto che né Mosca, né Washington vogliono consentire alla Mezzaluna la creazione di una fascia di cuscinetto del nord della Siria, che di fatto si trasformerebbe in una enclave sotto il controllo di Ankara.

Cosa verrà concesso a Erdogan si dovrebbe capire nelle prossime ore, con il Cremlino e la Casa Bianca che hanno messo in piedi le loro strategie pur di farlo desistere. Il Sultano sta cercando di sfruttare proprio la difficile situazione internazionale per attuare i suoi piani per due motivi. Il primo è che le energie di tutti sono convogliate altrove. Il secondo è perché pensa di poter avere la meglio sia sul Cremlino, visto che rimane l’ultimo suo alleato davvero influente, sia sugli Stati Uniti, che devono ancora “ricompensare” la Mezzaluna per la sua mediazione sul grano.

Ieri è arrivato in Turchia Alexander Lavrentyev, l’inviato speciale della Russia per la Siria. L’obiettivo è quello di fare capire al presidente turco che Ankara si deve accontentare di aver potuto utilizzare lo spazio aereo siriano per i suoi raid dal 20 novembre in poi. Questa volta, però, Erdogan sembra determinato a liberare dalla presenza di miliziani curdi le cittadine di Manbij, Tal Rifat e Kobane, dove sono presenti le cellule più pericolose dello Ypg, che Ankara considera il braccio siriano del Pkk. Almeno così dice. Si tratta a oltranza, insomma, con Ankara disposta a rispolverare anche l’accordo firmato ad Adana nel 1998, che le consentirebbe di varcare il confine entro 10 chilometri per motivi di sicurezza.

Dall’altra parte dell’Oceano, Washington sta portando avanti un doppio binario. Il Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, John Kirby, ha detto chiaro e tondo di non voler vedere operazioni militari nel nord-est della Siria. Ma gli Stati Uniti sanno bene quanto la Turchia possa essere inaffidabile e da giorni si rincorrono voci e conferme sull’arrivo di decine di blindati americani nella zona, pronti a dare manforte ai curdi nel caso in cui succedesse l’irreparabile.

In più, nel gestire questa situazione, la Casa Bianca deve anche tenere conto dell’atteggiamento di indifferenza nei confronti dei curdi ai tempi della presidenza Trump, che si è tradotto in un sostanziale voltafaccia.

Occorre agire in fretta e in modo tale da non lasciare spazio a soluzioni alternative. Anche perché la Siria è ancora così instabile che un intervento turco di terra rischierebbe di gettare il Paese nel caos. Lo sa bene il presidente di Damasco, Bashar al-Assad, che, per il momento, ha rifiutato la proposta di Mosca di incontrare Erdogan.

Lui, oltre che con un confine bollente, deve fare anche i conti con oltre mezzo milione di rifugiati che la Turchia ha rispedito al mittente. Gente che ha perso tutto, spesso non trattata con la generosità che Ankara ha sempre pubblicizzato. Operazioni chirurgiche che somigliano a un’invasione, migliaia di civili fra le potenziali vittime. Un’altra potenziale polveriera, che la comunità internazionale non si può permettere.

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