giovedì 5 marzo 2009
Avviata nel 2000, la «protezione» di cemento, reti e filo spinato alta 4 metri dovrebbe sigillare il confine ed evitare che i contenziosi diventino causa di un conflitto già sfiorato Né lingua, né etnia distinguono le popolazioni ai due lati. Ma il colosso indù teme infiltrazioni di gruppi musulmani
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Inaspettato, costruito nel si­lenzio, fondato su giustifica­zioni e su pretesti grandi quan­to la scala continentale che è pro­pria dell’India. Il Muro – o, come viene definito qui, Zero Line – cre­sce settimana dopo settimana ver­so i 4.100 chilometri complessivi previsti lungo quella che è la più e­stesa frontiera dell’Asia meridio­nale, tra India e Bangladesh. Obiettivo dichiarato da New Delhi: allontanare dal suo territorio la mi­naccia del terrorismo islamico, ab­battere il contrab­bando transfronta­liero e la consisten­te tratta di esseri u­mani che vi si svol­ge. Avviata nel 2000, la doppia barriera di quattro metri d’al­tezza, cemento, re­te metallica e filo spinato, dovrebbe rendere impermea­bile il confine ed e­vitare che i numero­si contenziosi tra i due Paesi diventino causa di un conflitto più volte sfiorato. Né lingua né etnia distinguono le popolazioni ai due lati del muro e la comune cultura bengalese, quella che ha espresso il premio Nobel per la letteratura Rabindra­nath Tagore e quello per la pace Muhammad Yunus, li avvicina più di quanto le diverse fedi (indù e i­slamica) li divida. Tuttavia, il flus­so di immigrati irregolari dal Ban­gladesh verso l’India, da un lato, e la presenza di almeno 100mila col­tivatori indiani sul territorio ban­gladeshi dall’altro restano una miccia sempre innescata che New Delhi non può ignorare. Eredità di una nascita tormentata e della difficoltà di aprire un tavo­lo concreto di trattativa che supe­ri stereotipi e opportunismo poli­tico, le numerose piccole enclave di una nazione nel territorio del­l’altra costringono interi villaggi a una convivenza o a un’accettazio­ne altrettanto forzate; alimentano sospetti e tensioni ma anche lu­crosi traffici e illegalità diffusa. Sono soprattutto gli indiani che vi­vono all’ombra del muro ma in suolo bangladeshi a temere per i loro beni e per la loro terra una vol­ta sigillati fuori dalla madrepatria. I loro vicini, d’altra parte, figli di u­na patria dal territorio che è la metà di quello italiano ma so­vrappopolato di 140 milioni di a­bitanti, hanno poco da perdere e ancor meno da temere. Sulla car­ta, Zero Line do­vrebbe essere u­na barriera con­creta, rafforzata dalla vigilanza di 60mila effettivi dell’esercito, nei fatti risulta una formalità, da ag­girare ovunque possibile lontano dagli occhi delle guardie di fron­tiera indiane, soprattutto nel set­tore orientale, dove il contrabban­do è fiorente e perlopiù impunito. Difficile distinguere cittadini in­diani e bangladeshi, spesso u­gualmente senza documenti op­pure con identità facilmente re­peribili a pagamento. Ancora più difficile segregare le due parti di comunità cresciute fianco a fian­co, sulla stessa terra, condividen­do servizi, approvvigionamento d’acqua, strumenti di lavoro e luo­ghi di culto. Il contrabbando, poco importa se di persone, merci, armi o bovini (ben 700mila i capi esportati dal­l’India illegalmente per essere ma­cellati nel musulmano Banglade­sh) garantisce il sostentamento di molte famiglie e di interi villaggi, sotto gli occhi a volte compiacen­ti a volte impotenti delle guardie di frontiera indiane e bangladeshi. I provvedimenti di spostamento coatto di intere comunità per ren­dere efficace la separazione fisica garantita dalle barriere sono ri­masti finora sulla carta. Un problema concreto quello del flusso di irregolari dal povero e so­vraffollato Bangladesh verso il grande vicino. Nei fatti, seppure ri­dotto rispetto al passato (da 65mi­la immigrati annui un decennio fa ai 10mila attuali, successo attri­buito ufficialmente alla costruzio­ne del muro), si è moltiplicato a partire dal primo massiccio arrivo di 4 milioni di persone nel 1971, alla nascita del Bangladesh, ex Pakistan Orientale, sotto l’ala pro­tettrice dell’India. Altri tempi quelli in cui ragioni strategiche consigliavano a Indira Gandhi di favorire con un inter­vento militare diretto l’indipen­denza della 'colonia' del Pakistan attuale, distante 1.600 chilometri, diversa da tutto, unita solo dalla fede in Allah. Oggi l’India vive di­rettamente il terrorismo islamico che va annidandosi tra le sue fol­te comunità musulmane e che dal­l’estero riceve sostegno, propa­ganda e nuove reclute. New Delhi accusa il governo di Dacca di tolleranza se non di ac­condiscendenza verso i gruppi in­dipendentisti attivi negli Stati di Assam, Manipur, Meghalaya e Mi­zoram – che oltre il confine trova­no santuari e facili rifornimenti – e al contempo di non bloccare l’e­sportazione dell’islam nella sua forma radicale e violenta. In par­ticolare, quella propugnata dal­l’Harakat al Jihad Islamiya, ai pri­mi posti nella lista del terrore che guarda all’India. Una presenza musulmana estremistica che, ca­pace di forti azioni dimostrative nei due Paesi, in Bangladesh resta ancora minoritaria ma che già si rivolge al vicino indiano per avere un palcoscenico di maggiore effi­cacia alla propaganda jihadista.
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