martedì 24 giugno 2025
Il docente Lior Sternfeld è tra i promotori del manifesto con oltre 2.100 attivisti di Iran e Israele: «Buona parte del popolo iraniano è ostile agli ayatollah ma ama il Paese e non vuole violenza»
Lior Sternfeld

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«Non siamo i nostri regimi». Comincia così la lettera aperta scritta in persiano, ebraico, inglese e francese da ventuno intellettuali e attivisti iraniani e israeliani «nell’arco di una giornata», come racconta Lior Sternfeld, uno degli autori. In dieci giorni di offensiva i sottoscrittori sono diventati oltre 2.100.

Nella lista figurano la Nobel per la Pace, Narges Mohammadi, il difensore dei diritti umani Mehrangiz Kar, l’ex parlamentare della Knesset, Mossi Raz, e il presidente dell’Accademia delle scienze e delle lettere di Gerusalemme, David Harel.

Con l’attacco Usa a Teheran di domenica, il loro grido di pace si fa ancora più forte. «No, non siamo i nostri regimi. Confondere popoli, Paesi e governi è un grosso errore. Nel caso dell’Iran, poi, data la confusione nelle cancellerie internazionali al riguardo, è macroscopico», sottolinea Sternfeld, docente di storia e studi ebraici alla Penn State University, tra i maggiori esperti di questioni iraniane. L’anno scorso, il docente ha partecipato, a margine dell’Assemblea generale Onu, a una riunione con il presidente Masud Pezeshkian, divenendo il primo cittadino israeliano a incontrare pubblicamente un leader della Repubblica islamica. «Il fraintendimento più grossolano nei confronti di Teheran riguarda l’opposizione interna».

Proprio a quest’ultima si è rivolto, all’inizio dell’offensiva, Netanyahu e ieri, il bombardamento del carcere di Evin è stato un nuovo messaggio. Che cosa non capiscono il governo israeliano e di molti Stati occidentali del dissenso iraniano?

L’opposizione agli ayatollah non solo esiste ma include gruppi consistenti della società. La sua ostilità nei confronti del regime non si traduce, però, nel sostegno agli interventi bellici di Israele e Usa. Gli iraniani non vogliono essere salvati da Benjamin Netanyahu o da Donald Trump. Al contrario: sono consapevoli che la guerra condotta da potenze straniere produrrà danni incalcolabili al proprio Paese. E qui viene il punto cruciale. Buona parte del popolo dell’Iran non ama gli ayatollah ma sì ama – e profondamente – la propria nazione. E non vuole vederla precipitare in una spirale di violenza senza fine, come è avvenuto in Iraq, Afghanistan o Libia. O cadere ancora una volta ostaggio di una dittatura sanguinosa. Hanno sperimentato sulla propria pelle i danni collaterali degli interventi occidentali.

A che cosa si riferisce?

Al golpe del 1953 orchestrato dalle intelligence Usa e britannica contro il governo legittimamente a Teheran del nazionalista Mohammad Mossedeq per imporre lo scià Mohammad Reza Pahlavi. L’opposizione iraniana è convinta che rovesciandolo, l’Occidente abbia ucciso la democrazia iraniana, passata dal regime dello scià a quello degli ayatollah. La sua lotta è cominciata allora con l’obiettivo di ridarle vita. E continua. Solo i dissidenti sono consapevoli che questo non avverrà con i missili israeliani: le bombe, come la storia insegna, non portano democrazia, sono i processi interni, faticosi, spesso contorti, a farla maturare.

Eppure spesso non solo in Israele, un ritorno degli eredi dello scià viene vista come un’opzione…

Un’opzione per chi? Non certamente per gli iraniani… Se si vuole aiutare davvero l’Iran si deve ascoltare l’opposizione interna non qualche voce della diaspora, priva di rappresentatività e di contatti profondi con il contesto attuale.

È ancora possibile evitare l’escalation?

Molto dipende dall’entità della risposta di Teheran. Ci sono pochi dubbi sul fatto che questa ci sia. Sarà tale da poter essere “archiviata” dagli Stati Uniti, come accaduto negli scontri dell’anno scorso con Israele, o no? Spesso l’Iran viene definito “debole”. Non lo considero tale: ha ovviamente capacità militari inferiori a Usa o Israele ma ancora ha mezzi tali da poter recare molti danni e sofferenza. Chiediamo, dunque, di fermare l’escalation prima che sia troppo tardi. Per questo abbiamo scritto la lettera aperta.

Come è nata l’idea?

A novembre, spaventato dall’ipotesi di una guerra, un gruppo di intellettuali iraniani ha contattato la controparte – pensatori, docenti, attivisti israeliani – per avviare un processo di dialogo. Sono cominciati, così, incontri online fra ventuno interessati dei due Paesi. Il precipitare della situazione ha impresso un’accelerazione allo sforzo di pace. Si è cominciato a parlare di un messaggio comune: 24 ore dopo era pronto. Al nucleo originario si sono sommati tantissimi altri. È un segno importante perché rompe la narrativa dominante dei due Paesi nemici a oltranza. Non è una guerra tra popoli ma tra leader vogliono utilizzarli per i loro interessi.

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