Dopo l’uccisione di Soleimani,Usa spaccati sulla «legittimità»
venerdì 21 febbraio 2020

L’uccisione del maggiore generale Qassem Soleimani e del leader di Katib Hezbollah Abu Mahdi al Muhandis il 3 gennaio scorso all’aeroporto di Baghdad ha sollevato, fra le tante domande, un’istanza etica che si riassume in un semplice ma cruciale quesito: chi ha diritto di autorizzare in tempo i pace l’omicidio di un nemico potenziale? Ed è sufficiente la presunzione di «pericolo imminente » per compierlo? O si tratta semplicemente di deterrenza, di un friendly warning (eufemismo per indicare un avvertimento minaccioso a futura memoria) perché l’avversario intenda? Il dibattito negli Stati Uniti è acceso.

Anche perché le possibili versioni divergono. Chi attribuisce la decisione di sopprimere Soleimani, dal 1998 alla guida della Forza Quds, la “Brigata Santa” dei Guardiani della Rivoluzione – come una retaliation (in gergo militare: «rappresaglia») per l’attacco delle milizie sciite alla base aerea K-1 di Kirkuk e il successivo assalto all’ambasciata americana a Baghdad, chi fa riferimento al consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton dell’epoca come il vero ispiratore dell’omicidio mirato, chi all’attuale segretario di Stato Mike Pompeo, come affermano svariati funzionari dell’amministrazione Trump. Basterebbe in realtà rifarsi alla Seconda Convenzione dell’Aja del 1907 per accertarsi che vi è divieto di sopprimere membri di governo di un Paese straniero non in stato di guerra dichiarata. Ma sono regole troppo spesso ignorate.

La morte di Soleimani non è che l’ultimo capitolo di una dottrina – sì, quella dei «targeted killing», gli omicidi mirati è di fatto una vera e propria dottrina – che gli Stati Uniti e il suo alleato Israele hanno adottato con altalenante efficacia e intenzione fin dagli anni di Settembre Nero. L’esecuzione della figura apicale più amata e onorata dopo la Guida suprema Khamenei somiglia molto da vicino a un analogo omicidio mirato, quello dell’ingegnere libanese Imad Mughnyeh, leader di Hezbollah e responsabile di una serie sterminata di atti di terrorismo, tra cui l’attacco alle caserme dei marines e del contingente francese a Beirut del 1983, ove morirono 241 americani e 58 soldati francesi, l’attentato suicida all’ambasciata israeliana a Buenos Aires e il rapimento conclusosi tragicamente del capo della stazione Cia in Libano William Francis Buckley. La vicenda ci può servire a illuminare il problema. Mughnyeh saltò in aria nel febbraio del 2008 a Damasco, mentre usciva da una delle due “case sicure” in cui si era rifugiato da tempo con il benestare delle autorità siriane.

Una bomba era stata installata in un Suv parcheggiato davanti al portone d’ingresso. Gli esecutori materiali erano israeliani, il supporto logistico – compreso l’esplosivo – lo aveva fornito la Cia. L’anno precedente si era verificata un’occasione analoga, ma il presidente americano George W.Bush aveva bloccato all’ultimo istante l’operazione: troppi rischi di danni collaterali, ovvero di coinvolgere gli alunni di una scuola lì vicino. Il premier israeliano Ehud Olmert tuttavia non aveva intenzione di rinunciare. I tecnici israeliani perfezionarono un ordigno in grado di colpire soltanto Mughnyeh, senza danni per civili innocenti. In visita alla Casa Bianca, Olmert ottenne il via libera di Bush. Il dibattito in corso in America infiamma il Congresso e chiama a testimonio figure rispettate e insospettabili come Thomas More – il martire cattolico già Lord Cancelliere di Enrico VIII, autore del romanzo L’Utopia e condannato alla pena capitale per essersi rifiutato di accettare l’Atto di Supremazia del re sulla Chiesa d’Inghilterra – o ambigue ed esecrabili come John Wilkes Booth, l’attore virginiano simpatizzante sudista che nell’aprile del 1865 uccise il presidente Lincoln mentre assisteva a una commedia musicale al Ford’s Theater di Washington. Si rievoca anche, e siamo forse al capostipite degli omicidi mirati, lo stesso Giulio Cesare.

I risultati sono controversi: mentre figure come il filosofo olandese Hugo Grotius giustificano «l’omicidio di un nemico in ogni tempo e in ogni luogo», un illustre predecessore di Donald Trump come Thomas Jefferson bolla nel 1789 gli assassinii, gli avvelenamenti e lo spergiuro come «abusi incivili, orrori indegni dei secoli passati». In mezzo ci sono decine di omicidi mirati da Trockij al commando delle Olimpiadi di Monaco del 1972, dai tentativi di eliminare Fidel Castro a quelli di sopprimere il leader di Hezbollah in Libano Hassan Nasrallah. Fino al «targeted killing» di Osama Benladen, approvato dal presidente Obama. Questa volta però impulsività di Donald Trump ha scosso il Campidoglio. Pochi giorni fa il Senato ha votato in maniera bipartisan la “Iran War Powers”, confermando una risoluzione della Camera che limita i poteri di guerra di Trump contro l’Iran. In base al testo approvato anche dai repubblicani la Casa Bianca dovrà chiedere l’autorizzazione del Congresso prima di decidere ulteriori azioni militari nei confronti di Teheran. Trump si è detto pronto a mettere il veto sulla risoluzione. Ma su questo non avevamo dubbi.

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