venerdì 25 settembre 2020
Dalla Siria al Congo, la macchina bellica non s’è fermata con la risoluzione per il cessate il fuoco globale del Consiglio di sicurezza del primo luglio. Appello per uno stop urgente
Un'immagine dell'ultima Assemblea generale alle Nazioni Unite

Un'immagine dell'ultima Assemblea generale alle Nazioni Unite - Ansa

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Ogni giorno, dal primo luglio, le guerre in corso nel mondo – trentatré, secondo l’International institute for strategic studies – hanno divorato 245 vite. La scelta della data non è casuale. Quel giorno, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato, all’unanimità, la risoluzione che sollecita un cessate il fuoco di novanta giorni per consentire alla comunità internazionale di concentrarsi nella lotta alla pandemia. La letale macchina bellica, però, non s’è fermata.

Anzi. In meno di tre mesi, oltre 21mila persone sono state uccise dai conflitti, oltre un quarto – almeno 5.800 – sono civili, adulti e bambini, presi di mira direttamente. A rivelarlo è un rapporto firmato da dieci Ong internazionali – Azione contro la fame, Save the children, International rescue commettee, World vision international, Oxfam America, Care international, Humanity and inclusion, Hope restoration South Sudan, Mwarana organization for human rights, Progressive voice – e indirizzato ai capi di Stato riuniti a Palazzo di Vetro per il Consiglio di sicurezza di ieri.

«Li esortiamo – scrivono – a rinnovare con urgenza la loro richiesta di stop e ad accelerare la capacità di risposta al Covid». È stato proprio il segretario Antonio Guterres a lanciare, il 23 marzo, la petizione per un cessate il fuoco globale: «È ora di fermare i conflitti armati e concentrarsi, tutti, sulla vera battaglia delle nostre vite. Alle parti in conflitto, io dico: Ritiratevi dalle ostilità. Accantonate diffidenza e animosità. Fermate le armi, l’artiglieria, i raid aerei».

Un appello a cui si è prontamente associato papa Francesco nell’Angelus della domenica successiva, il 29 marzo: «Invito tutti a darvi seguito fermando ogni forma di ostilità bellica, favorendo la creazione di corridoi per l’aiuto umanitario, l’apertura alla diplomazia, l’attenzione a chi si trova in situazione di più grande vulnerabilità». Affermazioni più volte rinnovate dal Pontefice nei mesi successivi. La proposta di Guterres non è caduta nel vuoto.

Qualche timido passo avanti c’è stato, specie nelle prime settimane. I guerriglieri filippini e quelli colombiani del Ejercito de liberación nacional (Eln), i miliziani del Southern cammerons defence forces, perfino le parti rivali in Yemen hanno deciso un temporaneo addio alle armi. Con il trascorrere dei mesi, però, la spina propulsiva sembra essersi arenata. Da qui la scelta del segretario generale di rilanciare l’appello il 21 settembre, Giornata internazionale della pace, e, poi, poco dopo, all’apertura della 75esima Assemblea generale, chiedendo di rendere reale lo stop ai conflitti entro il 2020.

«È l’ora di una nuova spinta collettiva per la pace e la riconciliazione – ha affermato Guterres –. Abbiamo necessità di uno sforzo internazionale comune, guidato dal Consiglio di sicurezza. Abbiamo cento giorni».

Dalla Siria alla Libia, sono molte le emergenze belliche a preoccupare la comunità mondiale. A partire dal Sud Sudan dove – sottolinea lo studio delle dieci Ong – l’aumento delle ostilità colpisce 6,5 milioni di persone, la metà della popolazione. In Congo si è registrato un aumento di attacchi nei confronti degli operatori umanitari mentre in Yemen, dopo la boccata d’ossigeno di aprile, la guerra è ripresa con ferocia, aggravando la carestia. Fenomeno quest’ultimo diffuso, specie in tempo di pandemia. Le misure per arginarla strangolano le attività economiche, specie quelle informali da cui dipende la sopravvivenza di gran parte degli abitanti del Sud del pianeta.

Oltre 110 milioni di bambini sono alla fame a causa del Covid. Solo nell’Africa subsahariana la povertà è cresciuta del 23 per cento: 426 minori al giorno rischiano di morire per malnutrizione acuta. «Una pausa di novanta giorni nei combattimenti, che venga effettivamente assicurata sul campo, potrebbe essere l’ancora di salvezza per aiutare a prevenire la fame e a proteggere le nuove generazioni», sottolineano le Ong. E concludono: «La verità è che stiamo pericolosamente esaurendo il tempo. Stanno già risuonando gli avvertimenti sulle potenziali carestie diffuse in almeno 4 Paesi a causa del coronavirus. E le nazioni a maggior rischio fame sono anche quelli impantanati nei conflitti».



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