sabato 19 novembre 2022
Promesso un fondo di risarcimento per i Paesi poveri che subiscono gli effetti negativi, se non catastrofici, dei cambiamenti ambientali. Ma la proposta è ancora una scatola vuota
Il vice presidente della Commissione Ue, Frans Timmermans, fa il punto sulle trattative con i giornalisti

Il vice presidente della Commissione Ue, Frans Timmermans, fa il punto sulle trattative con i giornalisti - Ansa

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«Il fardello economico che pesa sulle spalle dei più vulnerabili a causa dei danni e delle perdite per l’innalzamento del livello del mare deve essere equamente distribuito». Quando, trentun anni fa, il coraggioso presidente dell’Alleanza delle Piccole isole, Robert Van Lierop, statunitense di nascita ma figlio di immigrati dalle Isole Vergini e dal Suriname, presentò questa proposta, le grandi potenze non la presero nemmeno in considerazione.

«Non mi meraviglia – disse il protagonista –. Probabilmente sarà così per anni». Non si sbagliava: da allora sono trascorsi una Convenzione contro il cambiamento climatico e ventisette Conferenze delle par per aggiornarla. Ora, però, forse, il muro di scuse e giustificazioni è caduto. Lo si saprà per certo solo quando l’intero testo finale sarà approvato all’unanimità nella plenaria che, dati i tempi delle ultime trattative, potrebbe slittare all’alba o alla mattina di oggi, con quasi due giorni di ritardo sulla tabella di marcia.

Se, però, così fosse davvero, la Cop27 avrebbe raggiunto un traguardo fondamentale: stabilire, almeno in linea teorica, il dovere delle nazioni industrializzate, principali responsabili del riscaldamento globale, di compensare le perdite inflitte da quest’ultimo alle nazioni povere, le più vulnerabili agli effetti del clima. In questo caso, al vertice Onu di Sharm el-Sheikh sarebbe accaduto un fatto insolito nelle relazioni internazionali: il principio di giustizia avrebbe prevalso su quello della forza geopolitica.

Le periferie del globo – riunite nel Gruppo dei 77 – sarebbero riuscite a far valere le proprie legittime ragioni di fronte ai Grandi, determinati a respingerle.

La svolta, oltretutto, è arrivata quando pochi ancora ci credevano. La giornata di ieri – la più lunga del summit – è cominciata nel modo peggiore, con un intervento a sorpresa dal vice -presidente della Commissione Ue, Frans Timmermans, dopo una notte di trattative a vuoto. «Siamo pronti ad andarcene – ha detto, senza mezzi termini –. Meglio nessun accordo che un cattivo accordo». Bruxelles era infuriata con la presidenza egiziana della Conferenza, accusata di proporre un compromesso al ribasso sulla riduzione delle emissioni.

Il giorno prima, l’Europa aveva assunto il ruolo di mediatrice tra il Gruppo dei 77 e gli Usa, nell’intento di isolare la Cina. Pechino, da sempre, gioca una partita ambigua nelle Cop in cui, sebbene sia seconda potenza economica mondiale, risulta fra gli Stati in via di sviluppo, in base alla definizione della Convenzione del 1992. È, poi, il primo produttore di gas nocivi e, pur con delle aperture, non è disposta a drastiche riduzioni.

Bruxelles voleva bilanciare l’istituzione immediata del fondo per i danni del clima – istanza storica dei Paesi poveri – con una sforbiciata alle emissioni. Richiesta evidentemente respinte al mittente dal rappresentante cinese Xie Zhenhua, a giudicare dall’ira di Timmermans. Il vertice sembrava destinato a un finale, molto peggiorato, di Glasgow, dove il duello fra Bruxelles e Washington, da una parte, e Pechino e New Delhi, dall’altra, aveva occupato la scena, lasciando sullo sfondo il grido di giustizia delle vittime indifese dell’aumento delle temperature. Poi, nelle ore successive, qualcosa è cambiato.

Cruciale, in tal senso, il ruolo del Pakistan, guida del Gruppo dei 77, in realtà 134 Stati, reduce da tremende alluvioni e, dunque, particolarmente sensibile alla questione. Alla fine, le parti sono riuscite a trovare un compromesso “sbilanciato” in favore del Sud del pianeta.

Nell’ultima bozza presentata dalla presidenza egiziana, viene decisa la creazione di un fondo: a definirne contenuto, beneficiari e contribuenti, pubblici ma anche privati, entro la Cop28, sarà un comitato di transizione. In ogni caso, su richiesta Usa, l’assistenza andrà «ai più vulnerabili».

«Finalmente il giorno è arrivato», hanno commentato entusiasti rappresentanti dei Paesi poveri, esperti e attivisti, rimasti fino a tarda notte nel centro congressi semi-smantellato. «Le Cop sono l’unico forum globale capace di dare voce a tutte le nazioni, soprattutto le più vulnerabili», ha detto Luca Bergamaschi, del think tank Ecco.

Certo, si potrebbe obiettare che quanto proposto è ancora una scatola vuota. E il riempimento non è scontato come dimostra il sempre disatteso impegno di elargire 100 miliardi l’anno a partire dal 2020 alle nazioni vulnerabili per contenere le emissioni e adattarsi al clima. «Abbiamo ancora molto lavoro da fare», hanno commentato i tre volti-simbolo dei Fridays for future, Vanessa Nakate, Elizabeth Wathuti e Sophia Kianni. Si tratta, però, di un passo avanti innegabile.

Sempre che il testo sia approvato. Superato lo scoglio dei risarcimenti, a far fare le ore piccole alle 196 parti più l’Ue è stata la questione del contenimento dei gas serra per mantenere l’aumento della temperatura alla fine del secolo entro la soglia di equilibrio di 1,5 gradi. In questo senso, l’ultimo testo delle presidenza presentava ben poche novità rispetto al Patto di Glasgow.

Nessuna menzione alla riduzione di tutti i combustibili fossili, chiesto da Ue e Usa ma anche India, seppure – affermano tanti esperti – New Delhi l’avrebbe fatto per cercare di distogliere l’attenzione dal carbone. Né sull’anticipo di cinque anni, cioè al 2025, del picco di emissioni, leitmotiv di Washington e Bruxelles, pronte a una battaglia serrata per spuntarla.

«Ci sono solo piccole, piccole, questioni da risolvere», ha detto il rappresentante speciale della presidenza egiziana, Wael Aboulmagd, prima di iniziare la maratona di negoziazioni no

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