giovedì 27 maggio 2010
Guerra a Kingston dopo l’assalto al covo del «padrino»: 49 morti. I suoi fedelissimi hanno costruito barricate e attaccato la polizia. Le strade della capitale sono deserte. Washington promette sostegno all’esecutivo. Il premier Golding: «Prenderemo Dudus», ma nessuno l’ha visto.
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«Il rumore dei propri passi rimbomba come un’eco. Non si sente un clacson in città. È tutto così irreale», racconta Alicia su Twitter. La ragazza, 28 anni, abita in un quartiere residenziale di Kingston. Ha trascorso gli ultimi sette giorni barricata in casa, per timore degli scontri. «Da quando è scoppiata la battaglia tra le posse (come vengono chiamate le gang locali) e la polizia non ho avuto più il coraggio di uscire. Sparavano dappertutto», scrive. Ora in città, invece, c’è un silenzio insolito. È un normale giorno di lavoro, ma di auto e passanti, in giro per la capitale, praticamente, non se ne vedono. Da una settimana, il tempo si è fermato in Giamaica. La caccia all’uomo, scatenata dalle forze dell’ordine per catturare ed estradare negli Usa il super boss Christopher Coke, soprannominata “Dudus”, ha provocato la sanguinosa reazione delle bande dei suoi fedelissimi. Il quartiere-roccaforte di “Dudus” – Tivoli Gardens, alla periferia ovest di Kingston – si è trasformato in un campo di battaglia. Gli uomini del “padrino” hanno costruito barricate per frenare gli agenti e li hanno attaccati con pistole e mitragliatrici. La polizia ha risposto al fuoco. Sul terreno sono rimaste decine di persone. Difficile capire quante. Il primo bilancio parla di 49 morti, di cui 44 civili e tra i quali anche un bambino. «Ho visto 35 cadaveri all’obitorio. Altri nove vi saranno trasportati a breve», ha dichiarato Herro Blair, vescovo evangelico inviato dal governo nella zona come osservatore imparziale. La cifra reale, però, potrebbe essere ben più alta. Fonti mediche parlano di una sessantina di vittime. Il premier Bruce Golding ha promesso che farà chiarezza sulla vicenda. In molti, infatti, tra i cittadini parlano di eccessi da parte degli agenti. La confusione nell’isola è totale. L’unico fatto certo, al momento, è che “Dudus” non è stato catturato. Potrebbe aver lasciato la sua roccaforte e l’isola già domenica. «La caccia continua», ripete il governo. «Prima o poi lo prenderemo», ha dichiarato il premier. Che ieri si è trovato costretto anche a difendersi dalle accuse mosse contro di lui dalla stampa. In particolare il quotidiano britannico The Independent, avrebbe scritto che Golding è di fatto «un affiliato» all’organizzazione criminale di “Dudus”. Il premier ha parlato di «cospirazione» contro il suo governo. Nessuno sa di fatto che cosa accadrà realmente. I suoi fedelissimi ripetono che difenderanno il capo, a costo della vita. Per loro, “Dudus” è un eroe, un benefattore che elargisce cibo e medicine alle persone povere e manda a scuola i ragazzini. Un misto – sottolineano gli analisti politici – tra Robin Hood e Pablo Escobar. Il motivo di questa benevolenza popolare è semplice: a Tivoli Gardens “Dudus” è la vera autorità. È lui a elargire premi e punizioni. Ed è sempre lui a tenere l’ordine nel quartiere. Nessuno commette un delitto a Tivoli a meno che non sia lo stesso Coke ad ordinarlo. Garantisce la sicurezza agli abitanti della zona. «Compito in cui lo Stato giamaicano è più che carente», afferma Larry Birns, direttore del Council on Hemispheric Affairs, un centro studi specializzato in questioni latinoamericane. Le gang, di fatto, hanno preso possesso di ampie parti dell’isola, in cui hanno costruito amministrazioni parallele rispetto a quelle ufficiali. Centri di potere funzionali alla loro principale attività: il narcotraffico. La Giamaica, infatti, è tra i primi produttori mondiali di marijuana. Si parla di quasi 40mila chili all’anno di “erba”. Ma il Paese è soprattutto una delle più note narcovie ovvero punto di passaggio della cocaina sudamericana nel suo lungo viaggio verso i mercati di smercio: Stati Uniti e Europa. La fabbrica della coca è la Colombia, dove le coltivazioni si estendono – secondo l’ultimo rapporto dell’Ufficio Droga e criminalità dell’Onu (Undoc) – per quasi novantamila ettari. Il resto viene prodotto da Perù e Bolivia che immettono rispettivamente nel mercato illegale il 36 e il 13 per cento. Il consumo locale, però, è ristretto. Oltre undici dei circa venti milioni di dipendenti da cocaina – sempre secondo dai Onu – risiedono in Europa o, soprattutto, negli Stati Uniti. L’obiettivo delle bande è, dunque, portarla verso Nord. Via terra, cioè attraverso il Messico. L’indurimento dei controlli lungo la frontiera da parte dell’Amministrazione Usa ha spinto i malviventi a cercare altre strade. Sempre più coca, dunque, viene spedita in aereo o in nave verso le isole caraibiche – prima fra tutti la Giamaica e, poi, Porto Rico, Repubblica Dominicana e Haiti – dove i controlli sono più blandi. O fatta passare per rotte terresti alternative attraverso il Centroamerica. E da qui, inviata nel Vecchio Continente o negli States. Questo ha trasformato Giamaica e America Centrale in una “llagasangrienta”, una ferita aperta, come l’ha definita lo scrittore messicano Carlos Fuentes. Da qui il dilagare della violenza: in Giamaica l’anno scorso sono morte in modo violento oltre 1.600 persone. I tre quarti hanno meno di 24 anni.
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