lunedì 24 gennaio 2022
Espulso illegalmente è tornato di nuovo a Konya per assistere 400 orfani. «Chiedo un visto per continuare al sicuro il mio lavoro umanitario»
Anas, il siriano due volte profugo in Turchia
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"Non ti preoccupare Anas: troveremo il crimine più adatto a te". Questa la risposta degli agenti turchi ad Anas al-Mustafa che chiedeva in base a quale accusa lo stavano arrestando. Una minaccia, simile a quella di qualche giorno primo. Alla richiesta di contattare un avvocato, ancora più sprezzante la risposta degli uomini in uniforme: "Tu hai solo il diritto di firmare questo documento". Quello che prepotentemente gli sbattevano davanti agli occhi.

E' iniziata così, il 15 maggio del 2020 l'odissea giudiziaria di Anas al-Mustafa, 41enne siriano originario di Aleppo, dal 2016 profugo in Turchia. La visita alla sua abitazione da parte degli agenti, con il pretesto di fare alcune domande sulla richiesta di cittadinanza turca era in realtà un vero prelievo forzato, in violazione di qualsiasi norma giuridica, comprese quelle del diritto turco. Condotto a forza in un commissariato di Konya, ad Anas vennero prelevati documenti, oggetti personali e il telefono, per trovarsi poco dopo nella cella di un carcere assieme ad altri profughi siriani. Un muro di cinismo e brutalità, quello degli agenti, impermeabile alle richieste di avere spiegazioni e di essere trattato come un essere umano.

Poi il 22 maggio, alle 5 della mattina, assieme ad altri cinque siriani, Anas al-Mustafa si ritrovò su un pullmino senza insegne per "essere lasciato come un sacco di spazzatura" oltre il confine turco-siriano. Una vera "rendition" - espulsione extragiudiziale - per finire in mano alle milizie jihadiste che hanno il controllo della provincia siriana di Idlib. E quindi detenuto in un centro di raccolta per profughi, una sorta di lager, da cui dopo una settimana riuscì a scappare.

Estradato illegalmente dalla Turchia, era straniero nella sua stessa patria, perché nella provincia di Idlib poteva essere un ottimo ostaggio per le milizie che poi avrebbero chiesto un riscatto. Questo perché Anas al-Mustafa a Konya, da profugo, era diventato operatore umanitario, fondando lui stesso una associazione umanitaria: "A friend indeed". Molto attivo, con grandi capacità di relazioni, una buona conoscenza dell'inglese e contatti anche all'estero con una reste di Ong, a Konya in pochi anni Anas era diventato il punto di riferimento per 175 famiglie e circa 400 orfani siriani. Grazie alla rete di aiuti, a un circuito di micro-donazioni internazionali, riusciva a sostenere con pacchi alimentari e micro-credito ai suoi connazionali. Un piccolo capitale, forse capace di suscitare invidia o false maldicenze. Una attività per cui Anas deve essere entrato nel mirino della polizia.

Questo, due anni fa, il drammatico ritorno ad Idlib. E dopo mesi vissuti nascosto a casa di un amico alla fine del 2020 la decisione di tornare in Turchia. Una nuova Odissea, varcando a piedi il confine dopo aver camminato per trenta ore. Una fatica che ha lasciato i segni in un uomo comunque molto forte e determinato. Di nuovo profugo, varcando il confine a rischio della vita, per trovare un futuro possibile e riprendere, alla luce del sole, il lavoro a favore dei 400 orfani di Konya..

Ma prima di ritornare in Turchia, grazie ai contatti internazionali, Anas ha trovato la difesa di Chiara Modica Donà delle Rose - legale esperta di diritto internazionale - e di Bastimar Kurtulus, avvocato turco. Un difesa indispensabile ed efficace. Un nuovo sopralluogo della polizia a Konya, dopo il ritorno, non ha avuto conseguenze. Ma Anas, simbolo della volontà di riscatto di tutti i suoi connazionali, è un "sans papier" che vive nel limbo: in attesa di un giudizio sul suo caso e a rischio condanna come disertore se venisse respinto nella Siria sotto il controllo di Assad.

Anas, da oltre un anno, aspetta un pronunciamento delle Nazioni Unite: il suo provvedimento di espulsione è bloccato, ma serve un pronunciamento giuridico ufficiale. Anas, due volte profugo e divenuto operatore umanitario, chiede un visto per vivere al sicuro in Europa e proseguire il suo lavoro umanitario. Lo chiede alla Commissione Onu che deve esaminare il suo caso. E chiede giustizia, anche a noi.

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