Niente missili ma pace più vicina nell'ultimo Trump-Zelensky
di Elena Molinari, New York
Il no del presidente Usa all'uso dei Tomahawk da parte di Kiev e la battuta del leader ucraino su «Putin non ancora pronto» per la pace hanno ribadito che le distanze tra le parti restano intatte

«Dare i Tomahawk all’Ucraina sarebbe un’escalation e poi servono anche a noi». Donald Trump ha accolto Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca lodandolo per la sua «bellissima» giacca nera. E il complimento è l’unico gesto positivo, o quasi, che il presidente ucraino ha portato a Kiev da Washington. Perché a Pennsylvania Avenue è andato in scena l’ultimo atto di un copione ormai familiare, che si è ripetuto già sei volte dall’inizio dell’anno. Inizia sempre con la fretta del presidente statunitense di mettere fine alla guerra in Ucraina, della quale alternativamente si occupa o si lava le mani. Questa volta, sull’onda del successo del cessate il fuoco a Gaza, Trump sembrava entusiasta di ributtarsi nella mischia. Per la «pace numero nove».
Cercando una soluzione rapida e frustrato dall'intransigenza di Vladimir Putin, Trump ha minacciato di fornire armi più distruttive a Kiev. Il capo del Cremlino allora lo ha chiamato e il presidente Usa è emerso dalla conversazione persuaso della bontà del punto di vista di Putin, rinunciando alle minacce. Nell’atto successivo Zelensky si preoccupa e chiede un incontro urgente (l’ultimo, ad agosto, con il supporto dei leader europei, ieri da solo), durante il quale cerca di strappare qualche concessione. Se va male, si fa maltrattare (come a febbraio nell’Ufficio ovale), se va bene, la girandola si chiude con espressioni di speranza e di buona volontà reciproca e con la promessa americana di nuovi incontri e di continui sforzi diplomatici.
Questa volta al centro del carosello c’erano i missili Tomahawk. Dopo l’accordo in Medio Oriente, Zelensky ha cercato di convincere Trump che la via più rapida per porre fine alla guerra in Ucraina è fornirgli le potenti armi a lungo raggio che potrebbero colpire obiettivi all'interno della Russia e che, secondo il presidente ucraino, spingerebbero la Russia a negoziare una tregua.
La teoria del leader di Kiev ha subito trovato riscontro nell’inquietudine del Cremlino. Dopo che Trump ha ammesso di voler considerare l’invio dei Tomahawk, Putin l’ha chiamato. In due ore e mezza di discussioni ha ottenuto la promessa di un faccia a faccia a Budapest entro le prossime due settimane. Il vertice in Ungheria, offerto senza concessioni, è stato il primo campanello d’allarme per Zelensky. Che ha subito fatto preparare alla sua delegazione diretta nella capitale Usa una presentazione su come utilizzerebbe i missili Tomahawk e su come ritiene che cambierebbero la guerra, paragonando i missili a una capacità di «sanzioni a lungo raggio», in particolare se gli attacchi sono diretti a impianti petroliferi e altre fonti energetiche.
Ma ieri, alla Casa Bianca, è arrivata la doccia fredda: «I Tomahawk sono missili terribili, armi molto pericolose – ha detto Trump –. La minaccia dei Tomahawk è sempre lì, ma un’escalation può portare a cose molte brutte». Subito dopo, il tycoon ha piantato il chiodo finale nella bara della sua promessa di nuove armi a lunga gittata: «Non vogliamo dare via cose che ci servono a proteggere il nostro Paese», ha sottolineato.
Intanto da Budapest, il primo ministro Viktor Orbán, «uomo forte» di un regime che – come ha sottolineato ieri il tycoon – ha mantenuto relazioni amichevoli con Trump e Putin, ha dichiarato che «i preparativi per il vertice di pace Usa-Russia sono in corso». A Zelensky non è restato che raccogliere quello che ha potuto dal viaggio: «Le società energetiche americane sono pronte ad aiutarci», ha detto, oltre ad abbondare con l’adulazione: «Congratulazioni per il cessate il fuoco a Gaza. Putin non è pronto, ma sono fiducioso che con il tuo aiuto possiamo mettere fine alla guerra», ha aggiunto.
Il prossimo atto sarà l’incontro in Ungheria, seguito da un altro vertice molto importante per il presidente degli Stati Uniti, quello con il presidente cinese Xi Jinping in Corea del Sud che si terrà tra un paio di settimane. Là la partita sarà commerciale, ma per Trump i giochi sono simili. Minacce seguite da dietrofront e da summit, durante i quali tutto è possibile.
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