L'orfanotrofio-profugo si ricrea nel mezzo della guerra di Haiti

L'avanzata della gang ha costretto la Maison des Anges a fuggire da Port-au-Prince alla remota Faucher. «Non avevamo più soldi per far studiare i bimbi ma i lettori di Avvenire ci hanno teso una mano»
September 20, 2025
L'orfanotrofio-profugo si ricrea nel mezzo della guerra di Haiti
I piccoli ospiti della Maison des Anges disegnano in attesa di riprendere la scuola il primo ottobre
«No kay, lekól». Ripete l’ultima parola – scuola - due volte, in creolo, mentre indica il rettangolo bianco appena disegnato sul foglio. Mancano dieci giorni esatti ma Sabine è elettrizzata. A 7 anni, comincerà la terza elementare dopo avere terminato, a giugno, la seconda. Anche Doncé, 5 anni, è euforico: andrà in prima. Jonathan dovrà aspettare fino a novembre ma, poi, finalmente, potrà frequentare i corsi di elettronica. «Eh già, ho finito le superiori», dice, quasi a convincere sé stesso, il 19enne mescolando il francese all’inglese. «È che ancora non ci credo. Per nessuno di noi era scontato. Tre anni fa sembrava finito tutto». “Mak”, il marchio. Il termine-emblema dell’orrore della schiavitù è tornato in voga negli ultimi tempi fra gli haitiani. Così chiamano il momento esatto in cui la guerra in atto nel Paese ha fatto irruzione nelle proprie esistenze, segnandole in modo indelebile. Per la Maison des Anges, l’orfanotrofio-profugo sostenuto dai lettori di Avvenire, è il 24 aprile 2022.
Quel giorno, all’alba, la struttura, situata sulla rue Clercine di Port-au-Prince, e i suoi piccoli ospiti, all’epoca 62, sono stati catapultati sulla linea del fronte della “battaglia dei dodici giorni” tra la gang “400 Mawozo”, decisa a conquistare l’area dietro l’aeroporto, e quella di Chen Mechan, determinata a resistere. Nella morsa, i civili: almeno 148 sono stati uccisi e l’intero quartiere sfollato. Gli invasori, guidati dal feroce Wilson Joseph alias “Lanmó San Jou”, hanno perpetrato decine di decapitazioni e stupri, oltre 130 case sono state date alle fiamme insieme ai residenti. Solo con il sostegno del potente Jimmy Chérizier meglio noto come Barbecue, futuro capo della federazione di bande “Viv Ansanm”, il boss locale è riuscito, alla fine, a respingere l’incursione. Ma gli abitanti non hanno più potuto fare ritorno. «Per giorni sentivamo gli spari intorno, c’erano uomini armati sul tetto. Poi, un proiettile ha trapassato la parete della camera dove dormivo con gli altri adolescenti. Mi ha sfiorato ma non ha colpito nessuno», racconta con voce asettica Jonathan. «In quell’istante ho capito che non potevamo più restare. Ho guardato Leslie: anche lui lo sapeva. Il 7 maggio di quell’anno è iniziata la nostra fuga», aggiunge Gladys che, insieme al marito, guida la Maison des Anges dal 1998. Nei quasi tre decenni di vita dell’istituto si può leggere in filigrana la storia di catastrofi e resilienza di cui è impregnato il XXI secolo haitiano: il terremoto del 2010 che ha sbriciolato l’edificio originario, la successiva epidemia di colera, i vari uragani. «Niente è, però, paragonabile al conflitto attuale che ci ha trasformati in sfollati interni», sottolinea Gladys. Fedele al motto creolo «dopo le montagne ci sono altre montagne», invece, ancora una volta, la Maison ha trovato la forza di ricominciare. «Non ce l’avremmo fatta senza gli amici italiani – sorride Gladys –. Ci avete aiutato a costruirci un nuovo inizio a Faucher».
La casa di Faucher è nella remota campagna haitiana
La casa di Faucher è nella remota campagna haitiana

Qualche centinaio di casupole di compensato e latta arrampicate sull’altopiano occidentale. Niente rete idrica né elettricità. L’unico modo per avere Internet è connettersi a Starlink, il sistema satellitare con cui Elon Musk ha trasformato il “vuoto digitale” del Sud del mondo in business milionario. Faucher, propaggine montuosa di Grand-Goâve, è il Far West del Far West haitiano. Al tramonto il buio ingoia il paesaggio mentre ogni pioggia annega il poco asfalto superstite sulla Route Nationale 2. Percorrendola in direzione est, si raggiunge Port-au-Prince in una cinquantina di chilometri. O, meglio, si raggiungeva. La strada è off-limits fin dal 2021. È stata la prima via d’accesso alla capitale a cadere nelle mani delle gang che, così, si sono aggiudicate il controllo del flusso di esseri umani e, soprattutto, merci verso l’ovest. Una dopo l’altra, poi, avrebbero conquistato le altre, paralizzando a propria discrezione l’economia nazionale. Il Paese vive di importazioni: tutto, dal cibo ai farmaci, arriva dall’estero, via mare, a Port-au-Prince. E da lì prosegue verso le province. A patto, però, di pagare un pedaggio sempre più alto alle bande. Anche gli sfollati comprano il “passaggio sicuro” nell’intento di diminuire – impossibile azzerare – il rischio di sequestro. Nel 2022, Gladys e Leslie hanno dovuto sborsare 50 dollari a persona – buona parte dei risparmi – per lasciarsi Port-au-Prince alle spalle con dodici piccoli al seguito. Quanti non erano riusciti a sistemare in strutture di fiducia. «Non potevamo lasciarli. Né darli in mano al primo istituto. In tanti accadono certe cose…». Così li hanno portati con loro – come sette impiegati senza altro lavoro – a Faucher, nella casa che Leslie aveva ricevuto dalla famiglia e in cui il figlio aveva cercato di aprire un agriturismo. L’esperimento, però, era fallito per mancanza di turisti e il giovane aveva lasciato la nazione. La coppia ha dato fondo ai soldi residui per trasformare il pseudo eco-hotel in un istituto per bambini: la nuova Maison des Anges. I dormitori sono modesti ma puliti, i bagni hanno l’acqua corrente grazie ai due pozzi scavati nel terreno mentre il generatore garantisce l’energia per pomparla oltre che corrente per conservare il cibo e luce per fare i compiti la sera. Piccoli “lussi” che l’orfanotrofio condivide con i vicini. Al pomeriggio, i ragazzi della zona vengono con le taniche di plastica ad attingere l’acqua dal pozzo. Tornano al calar del sole per caricare i cellulari e utilizzare il wifi. All’ora di cena, si aggiungono vari bambini del circondario che mangiano così l’unico pasto del giorno. Da profugo, l’orfanotrofio si è trasformato in seme di comunità.
Ci siamo approdati dopo due intenti andati a vuoto negli ultimi dodici mesi grazie alla recentissima riapertura dei voli interni. Da Cap Haitien, l’unico scalo internazionale rimanente, è ripreso il collegamento quotidiano con Les Cayes, cuore del sud. Per Foucher ci vogliono almeno altre tre ore d’auto, al netto di ingorghi, allagamenti, frane. Dieci volte il percorso ordinario. La guerra ha frantumato Haiti in una miriade di isole non comunicanti. «Port-au-Prince è lontana, lontanissima. Se là il conflitto ha acuito la penuria, qui dobbiamo andare avanti senza niente», afferma Gladys che ha trascorso l’estate a radunare il materiale scolastico per i “suoi” bimbi. Il frutto dello sforzo è custodito in una stanza chiusa: sugli scaffali una fila di zainetti con all’interno l’essenziale: astucci, matite, penne, righelli, quaderni. Quattordici: uno per ciascun ospite. Negli ultimi tre anni, tre sono riusciti, dopo lunghi ritardi, a raggiungere le famiglie adottive negli Usa. In compenso, al gruppo si sono aggiunti quattro piccoli della zona – Cindiana, Kinalene, Monica, Ondlé – e la 14enne Tedline, che la madre, disabile psichica, ha voluto mandare via da Port-au-Prince per paura delle bande. «Solo due dei nostri ragazzi hanno perso i genitori. Gli altri li hanno ma sono troppo feriti da povertà e orrori per riuscire ad allevarli. Li affidano, così, a noi nella speranza di dare loro una vita migliore. Soprattutto di farli studiare».
Ad Haiti l’istruzione è obbligatoria ma non gratuita. In pratica non esistono scuole pubbliche. Tra retta, attrezzatura e uniforme – indispensabile –, il costo annuale medio degli istituti di Gran Goave, gli unici raggiungibili dall’orfanotrofio, è di 500 dollari. «Proprio un anno fa, con Leslie, dopo una giornata a fare ogni calcolo possibile, ci siamo resi conto che non li avevamo. Con il trasferimento e i lavori non ci era rimasto nulla. Cosa dovevamo fare? Lo studio è l’unica possibilità di vita per i bimbi di Haiti, condannati, altrimenti, ad essere schiavi delle gang. Per questo le famiglie erano disposte a separarsene e darceli. Noi, invece, stavamo tradendo loro e i nostri ragazzi. Poi, d’improvviso, dall’Italia, tanti ci hanno teso la mano». I contributi raccolti con la campagna Figli di Haiti di Avvenire e Fondazione Avvenire hanno consentito agli “angeli” della Maison di frequentare la scuola. E di continuare a farlo. «Siamo anche riusciti a comprare polli, maiali e capre per avviare un allevamento e auto-sostenerci – dice Leslie –. Ci vorrà tempo, sono i primi passi. È buffo, quando siamo fuggiti da Port-au-Prince, credevamo che fosse la fine. Invece era un inizio». Il nuovo inizio della Maison des Anges. «Che cosa desidero per il futuro? – conclude Jonathan – Vorrei terminare il corso e trovare un lavoro che mi consenta di aiutare altri bimbi. Ho tanti sogni. Ma il più grande è quello che Haiti trovi finalmente pace».
(10.Continua)

© RIPRODUZIONE RISERVATA