«La Siria sembra l'Afghanistan: chi governa si basa sulla sharia»
di Luca Geronico, inviato a Homs
L'arcivescovo di Homs, Jacques Murad: «Caduto Assad si sperava nella libertà, ma con le violenze contro gli alauiti a marzo abbiamo capito di esserci sbagliati. Ogni giorno sfiducia e paura aumentano»

«Caduto Bashar al-Assad, tutto il popolo aveva una speranza di libertà. Dopo i primi atti di violenza non si è voluto cedere alla disillusione: non era facile credere che il regime fosse caduto, un sogno irrealizzabile era diventato realtà. Ma con il massacro degli alauiti a marzo abbiamo capito di esserci sbagliati ed è iniziato questo nuovo cammino di sofferenza: ogni giorno la paura e la mancanza di fiducia aumentano». Parla pacato nel suo italiano un po’ incerto e dal forte accento francese padre Jacques Murad mentre, fra il via vai di sacerdoti e collaboratori nel suo ufficio, l’analisi sulla “nuova Siria” si fa sempre più acuta. Da due anni e mezzo Jacques Murad è l’arcivescovo siro-cattolico della città di Homs, storica culla dell’opposizione ad Assad: nel 2012, durante la guerra civile, i bombardamenti a tappeto dell’esercito piegarono la rivolta dei Fratelli musulmani sunniti. Un passato violento che riaffiora anche ora che l’”ancien regime” è caduto. Dopo l’8 dicembre le prime violenze furono contro gli alauiti, ma i cristiani – 80mila secondo le stime in una regione di 4 milioni di sunniti e una piccola comunità alauita – non sono stati risparmiati. I “guerriglieri” di Idlib per prima cosa hanno requisito tutte le armi nei villaggi cristiani, anche quelle possedute legalmente. Poi sono iniziate estorsioni di denaro in misura molto maggiore di prima: alcuni cristiani sono stati uccisi ed ogni giorno vi sono furti o minacce. E c’è chi riferisce di arresti senza un processo o un chiaro capo d’accusa. E domenica scorsa le tribù beduine sono entrate in città devastando i quartieri alauite per vendicare l’uccisione di un loro capo e della moglie. Tre le vittime secondo il governo e per 24 ore è stato imposto il coprifuoco in tutta la città. Ieri manifestazioni e sit-in si sono moltiplicati nelle località a maggioranza alauita.
Monsignor Jacques Murad, la settimana scorsa nel governatorato di Idlib, sono state riconsegnate le terre e le case dei villaggi cristiani. Un segnale di buona volontà?
Vi sono singoli episodi positivi, ma il punto è se il nuovo governo vuole riconoscere i cristiani: la restituzione di terre, case e scuole è importante, ma si restituisce ciò che era già di proprietà della Chiesa. Ma se poi non c’è una effettiva libertà di insegnamento a che serve tutto questo? Abbiamo il diritto di praticare il nostro culto, ma se non viene concessa libertà per tutte le azioni sociali della Chiesa, come del resto di tutte le altre strutture laiche e musulmane, è un segnale di mancanza di effettiva libertà religiosa. Ci sono molte questioni legali, ad esempio sulle eredità, sui matrimoni e ogni giorno constatiamo che i diritti umani non sono rispettati.
Nel nuovo parlamento non c’è nessun cristiano. Voi vescovi siriani riuscite a parlare con il governo?
Certo, ma non sono disposti ad ascoltare nessuno: vi è un distacco tra il governo e il popolo che, come ha dichiarato il ministro degli Esteri Asaad al-Shaibani, è considerato un alleato di Assad. Ma molti di noi, durante tutti questi anni, si sono confrontati con Assad, abbiamo portato un enorme peso sulle nostre spalle. Con nostra sorpresa quelli venuti da Idlib considerano noi che abbiamo fatto una resistenza morale ad Assad come alleati del vecchio regime. Noi abbiamo sofferto non meno di chi è stato costretto in un campo profughi: siamo morti sotto le bombe o per le torture nelle prigioni, siamo stati vittime della corruzione e siamo stati derubati dal regime di Assad. C’è poi chi è morto combattendo per il regime, ma perché costretto ad obbedire ad Assad. E ci sono quelli uccisi o torturati in vario modo dal vecchio regime, a cominciare da chi è sparito nella prigione di Sednaya. Tutti questi sono ora considerati dei morti senza valore. Questo nuovo governo, che ci è stato imposto, ha una attitudine di violenza e di non accettazione del popolo: ci sentiamo, ancora una volta, schiavi di chi è al potere.
Se il problema della sicurezza è sulla bocca di tutti in Siria, la crisi economica spinge ancora molti cristiani ad emigrare?
Certo, e in modo ancora più forte di prima. Abbiamo aspettato che si togliessero le sanzioni, si avviassero progetti internazionali per avere una speranza di futuro. Ma oggi la maggior parte della popolazione non lavora perché, tre settime dopo la presa del potere, il governo ha licenziato la maggior parte degli impiegati pubblici. Tante famiglie oggi non hanno un reddito: ogni giorno, parlo della mia Chiesa, qualcuno viene a chiedere aiuto perché non ha da mangiare.
Se arriveranno compagnie straniere, se si inizierà a ricostruire sarà un grande sollievo, soprattutto per i giovani. Intanto vi è malcontento contro il governo che è in favore degli interessi della Turchia, degli Stati Uniti, di Israele ma non del suo popolo.
Molti anni fa, con Padre Dall’Oglio, lei fondò il monastero di Mar Musa. Il sogno di padre Dall’Oglio era una Siria unita e federale. Condivide ancora questo obiettivo?
Non posso immaginare la Siria divisa, non posso immaginare di dover chiedere un permesso per andare a Latakia o, come già avviene, ad Hassaké. Le maggiori risorse minerarie sono nel nord est e quindi, in un Paese diviso, come vivono gli altri? Se costruiamo dei muri, nuove frontiere, serviamo solo a degli interessi personali e questa divisione geografica e storica permette un aumento della violenza tra le comunità che non si può fermare facilmente. La domanda, allora, è se è vero che ci sono alcuni Paesi che vogliono la spartizione della Siria: di sicuro Israele è interessato a questo perché non vuole un Paese forte, libero e democratico vicino. I curdi vogliono creare la loro patria quando non l’hanno mai avuta e così servono gli interessi di Israele. Per la pace, al contrario, serve un Medio Oriente unito, nella libertà religiosa e nel rispetto dei diritti di tutti.
In questa situazione c’è chi teme una islamizzazione forzata e che vengano imposte leggi islamiche, la “sharia”. Esiste questo rischio?
Non è un rischio, è la realtà. La Siria, oggi, è un Paese islamico per eccellenza, sembra l’Afghanistan. La presenza di gruppi armati che vengono da altri Paesi lo dimostra. Ma anche la mentalità con cui si gestiscono tutte strutture del Paese dimostra questa realtà: la “sharia” è la base di tutte le decisioni. Voglio, però, discernere tra la “sharia” e il fanatismo: l’islam in se stesso non si presenta come quello dei gruppi fanatici. C’è un problema interno all’islam, di come i musulmani comprendono la loro religione. Durante la mia prigionia (sotto lo Stato islamico, ndr) un maestro iracheno di “sharia” mi disse che per loro tutti i cristiani sono blasfemi, ma anche i musulmani siriani. Con sorpresa gli chiesi il perché: i siriani, mi rispose, non hanno accettato di seguire la legge del Califfato. Questo fa capire che i musulmani siriani sono per loro natura differenti dai fanatici che si trovano in Cecenia, in Uzbekistan, in Afghanistan: non c’è questa natura violenta. Un atteggiamento che ha permesso ai siriani di accogliere l’islam nella sua parte positiva, non la chiusura nella “sharia” e nella “sunna” (l’esempio del profeta Maometto, ndr). Chi ha preso oggi il potere segue invece il fanatismo che non permette ai cristiani di sentirsi di far parte del Paese ma che siamo “dhimmi”, dei sottomessi. Questo non ci permette di prendere l’iniziativa per il dialogo, serve un cambiamento da parte dei muftì, degli imam per poter costruire questo ponte e vivere insieme, come prima.
Per concludere, monsignor Jacques Murad, che appello farebbe se potesse incontrare il presidente al-Shaara?
L’unica cosa che gli chiederei è di ripristinare il ministero della Giustizia, di riportare la legalità perché se si riesce a fare questo la maggior parte dei problemi sociali e politici si risolvono. Di fronte alla paura l’unica cosa che salva è la giustizia. Se arriviamo a questo obiettivo possiamo immaginare di costruire una nuova Siria democratica, se no restiamo nella disperazione.
(2. Continua)
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