Kamala Harris: «Sarò la presidente di tutti»

Il discorso di accettazione della nomination democratica: tra i temi, la guerra a Gaza, l'Ucraina, Donald Trump, l'immigrazione, le armi...
August 22, 2024
Kamala Harris: «Sarò la presidente di tutti»
ANSA | Kamala Harris nel suo discorso di accettazione della nomination per la Casa Bianca
Giovedì sera da Chicago Kamala Harris ha fatto quello che doveva fare. Ha toccato i punti principali della sua biografia. Ha delineato l’esperienza professionale che la prepara alle responsabilità presidenziali. Ha promesso di governare per tutti gli americani, non solo per i suoi elettori. Ha espresso gratitudine e amore nei confronti della sua famiglia. E ha sottolineato le differenze con il suo avversario. In breve, ha avuto un ottimo colloquio di lavoro. Ma è solo il primo. Per decidere se affidarle l’incarico, il suo datore, il popolo americano, avrà bisogno di sapere qualcosa di più su di lei e di scavare un po’ più a fondo nella sua storia.
Le reazioni a caldo del discorso di accettazione della nomination democratica alla Casa Bianca pronunciato dall’attuale vicepresidente Usa puntano in una direzione insolita nella storia recente del partito progressista americano. Negli ultimi decenni i dem hanno avuto tre presidenti, Bill Clinton, Barack Obama e Joe Biden che sono stati spesso rimproverati di inserire nei loro discorsi vere liste della spesa di promesse elettorali, dense numeri, date e proposte. Il loro aspirante successore invece si è mantenuta vaga, limitandosi a enunciare grandi principi. «Creeremo un’economia delle opportunità in cui tutti abbiano la possibilità di competere e di avere successo», ha detto Harris nella notte (l’alba di ieri in Italia). «Uniremo i lavoratori, i sindacati e le aziende per creare posti di lavoro e ridurre il costo della vita quotidiana per tutti gli americani», ha continuato.
«Porremo fine alla carenza degli alloggi in America». E poi ancora: «Faremo in modo che sia l’America, e non la Cina, a vincere la competizione per il XXI secolo e ci assicureremo di guidare il mondo nel campo dell’intelligenza artificiale e dello spazio mentre rafforzeremo la nostra leadership globale».
La platea di delegati democratici dello United Center ha tuonato d’applausi e di grida d’approvazione. Fuori dall’arena, sui social, nei focus group, in moltissime case, gli indecisi, gli indipendenti e anche molti democratici intanto si chiedevano: «Come?» Vorranno una risposta prima di votare per una candidata che non ha partecipato alle primarie del partito ma che l’establishment democratico ha presentato all’ultimo momento come l’unica alternativa concreta alle défaillance di Joe Biden. E che per ora ha fornito dettagli concreti solo sulla sua posizione sull’aborto, promettendo una legge che ne reintrodurrà il diritto a livello federale. Anche sul fronte personale, dopo quattro giorni di convention e un discorso finale di 37 minuti, molti americani non conoscono Kamala molto meglio di prima. Anche qui la differenza con gli ultimi tre politici che hanno portato il partito alla Casa Bianca è notevole. Nessuno dei tre ha mai lesinato nel condividere momenti difficili che hanno contribuito ad umanizzarli. L’alcolismo e l’abuso del patrigno per Clinton, la madre che lo svegliava da ragazzino alle 4 del mattino per studiare perché fosse meglio preparato dei bianchi per Obama, la tragica morte della moglie e della figlia per Biden.
Harris ha parlato di genitori immigrati e di «memorie gioiose» in «una casa piena di risate e musica», di una madre che diceva «resta qui vicino» mentre il padre la incoraggiava a non avere paura, di una comunità di «pompieri, infermiere e muratori» che era come una seconda famiglia. Un ritratto rassicurante che dona alla candidata credibilità quando parla di lotte delle famiglie lavoratrici, ma che non sembra aver creato una vera connessione emotiva con l’elettorato. La frase che ha toccato maggiormente è stato l’augurio di «buon anniversario» al marito.
Il capitolo forse più importante del discorso era il modo di inquadrare la lotta con Trump. Kamala ha deciso di non presentare il rivale come una minaccia alla democrazia, scostandosi volontariamente da Biden, ma come una persona «poco seria» ed egoista, che pensa solo ai propri interessi e non a quelli degli americani, un imprenditore il cui solo cliente è sé stesso, ma i cui atti possono avere conseguenze «molto serie». A sottolineare io contrasto con l’ex presidente è stata anche la scelta di Harris di usare sempre il pronome «noi» e quasi mai «io», che ha raccolto consensi. Così come la mossa di Harris di posizionare la sua campagna come «gli underdog di questa elezione», la parte svantaggiata che deve rimontare e alla quale vanno in genere le simpatie dei tifosi.
Molto meno è piaciuto (più per una questione di coerenza che di sostanza) l’equilibrismo retorico sul Medio Oriente. Allontanandosi da pronunciamenti pro-Gaza fatti prima di ottenere la nomination, Harris ha sottolineato che sarà «dalla parte di Israele sul diritto di difendersi», per poi affermare il diritto dei palestinesi «alla dignità, alla sicurezza, alla libertà e all’autodeterminazione».
Non abbastanza per una grossa fetta della sinistra Usa.
Quando la tradizionale cascata di palloncini bianchi rossi e blu le è piovuta sulla testa e la famiglia l’ha raggiunta sul palco, Harris era riuscita nell’intento di trasmettere un atteggiamento, una voce, un’espressione presidenziale. Per adesso può bastare. Nei prossimi 75 giorni però dovrà spiegare agli americani perché dovrebbero seguirla sulla «nuova strada» che vuole tracciare per loro.

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