I parenti degli ostaggi: «Non abbiamo il diritto di perdere la speranza»
Matan Eshet è il cugino di Evyatar David, uno dei 59 israeliani presi in ostaggio da Hamas da 603 giorni: «Ci aiuta il confronto con altre famiglie, ci supportiamo a vicenda»

«Dobbiamo essere fiduciosi sul ritorno di Evyatar a casa, e aiutarlo a resistere. Non abbiamo il diritto di perdere la speranza». Il filo di voce non toglie peso alle parole di Matan Eshet, giovane 28enne e cugino di Evyatar David: uno dei 59 israeliani presi in ostaggio da Hamas da 603 giorni, il 7 ottobre 2023. Eshet, che ora vive a Tel Aviv, fa anche parte dell'Hostages and Missing Families Forum, l'organizzazione che si è costituita sempre nel 2023, poche ore dopo il brutale attacco di Hamas in Israele per «riportare gli ostaggi a casa» e «offrire supporto medico, psicologico ed emotivo ai familiari degli ostaggi».
È passato più di un anno e mezzo dal rapimento di Evyatar. Che ricordo c'è di lui?
Evyatar ha un cuore dolce: è il migliore amico che si può avere all'interno di un gruppo. Carattere mite, amante della musica, aperto alle relazioni e pieno di sogni. E a me basta questo per portare avanti la sua causa.
Com'è cambiata la vita dal 7 ottobre?
È attraversata da terrore e paura. Poi l'attesa è spasmodica: divora le energie che abbiamo e la psiche. Ci aiuta il confronto con altre famiglie: ci supportiamo a vicenda. Dopo tanto tempo nessuno si chiude nella propria sofferenza, ma il legame si mantiene saldo. Abbiamo anche punti di vista e idee politiche diverse, talvolta in contrasto. Ma siamo anche capaci di fare sintesi e trovare punti che ci accomunano per riportare gli ostaggi a casa.
Oggi, considerata la crisi a Gaza: che margine resta per il ritorno degli ostaggi?
Evito di pensare al peggio. Anzi, vorrei pensare che il governo israeliano sta facendo tutto ciò che è nelle sue mani per riportare gli ostaggi a casa. E che non ci sarà mai più un altro 7 ottobre. Tel Aviv ha una grossa responsabilità sulle spalle. Per il resto: non sono un politico, ma il cugino di un ostaggio innocente. E vorrei riaverlo a casa.
Che ne pensa delle trattative?
C'è una grande differenza tra ciò che si dice nei media e la realtà, spesso più complessa. Ci sono tante informazioni sui negoziati che non avremo mai disposizione. Infatti, qui l'informazione viaggia su binari paralleli: da un lato c'è la versione ufficiale, dall'altro gli elementi che circolano ai tavoli delle trattative. Perciò, insieme alle famiglie, cerchiamo di stare a riparo dalle sirene: scrutiamo le informazioni, non scivolare sulle Fake news, e restare lucidi. Anche per la nostra sicurezza.
Non pochi si augurano un futuro di pace tra israeliani e palestinesi. Sarebbe auspicabile?
Sì, ma senza più violenza né terrorismo. Si può coesistere. Servono però un cambio di mentalità e un ascolto sincero e senza pregiudizi. Insomma, senza tagliare parti di una storia già di per sé complicata. Quando lei dice "pace" penso all'Occidente. E un po' sono geloso: io non so cosa sia vivere in un luogo dove il servizio militare non è obbligatorio, dove la vita non è sotto costante minaccia e le sirene d'allarme non suonano quasi mai. La vita, in questi luoghi, è molto più complicata di ciò che YouTube o i Social possano trasmettere.
È passato più di un anno e mezzo dal rapimento di Evyatar. Che ricordo c'è di lui?
Evyatar ha un cuore dolce: è il migliore amico che si può avere all'interno di un gruppo. Carattere mite, amante della musica, aperto alle relazioni e pieno di sogni. E a me basta questo per portare avanti la sua causa.
Com'è cambiata la vita dal 7 ottobre?
È attraversata da terrore e paura. Poi l'attesa è spasmodica: divora le energie che abbiamo e la psiche. Ci aiuta il confronto con altre famiglie: ci supportiamo a vicenda. Dopo tanto tempo nessuno si chiude nella propria sofferenza, ma il legame si mantiene saldo. Abbiamo anche punti di vista e idee politiche diverse, talvolta in contrasto. Ma siamo anche capaci di fare sintesi e trovare punti che ci accomunano per riportare gli ostaggi a casa.
Oggi, considerata la crisi a Gaza: che margine resta per il ritorno degli ostaggi?
Evito di pensare al peggio. Anzi, vorrei pensare che il governo israeliano sta facendo tutto ciò che è nelle sue mani per riportare gli ostaggi a casa. E che non ci sarà mai più un altro 7 ottobre. Tel Aviv ha una grossa responsabilità sulle spalle. Per il resto: non sono un politico, ma il cugino di un ostaggio innocente. E vorrei riaverlo a casa.
Che ne pensa delle trattative?
C'è una grande differenza tra ciò che si dice nei media e la realtà, spesso più complessa. Ci sono tante informazioni sui negoziati che non avremo mai disposizione. Infatti, qui l'informazione viaggia su binari paralleli: da un lato c'è la versione ufficiale, dall'altro gli elementi che circolano ai tavoli delle trattative. Perciò, insieme alle famiglie, cerchiamo di stare a riparo dalle sirene: scrutiamo le informazioni, non scivolare sulle Fake news, e restare lucidi. Anche per la nostra sicurezza.
Non pochi si augurano un futuro di pace tra israeliani e palestinesi. Sarebbe auspicabile?
Sì, ma senza più violenza né terrorismo. Si può coesistere. Servono però un cambio di mentalità e un ascolto sincero e senza pregiudizi. Insomma, senza tagliare parti di una storia già di per sé complicata. Quando lei dice "pace" penso all'Occidente. E un po' sono geloso: io non so cosa sia vivere in un luogo dove il servizio militare non è obbligatorio, dove la vita non è sotto costante minaccia e le sirene d'allarme non suonano quasi mai. La vita, in questi luoghi, è molto più complicata di ciò che YouTube o i Social possano trasmettere.
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