Da Modi a Xi Jinping, chi c'è nella tela di Lula

Il presidente brasiliano guida un Paese colpito dai dazi americani al 50%. Il successore di Bolsonaro (il preferito da Trump) ha reagito pensando a grandi intese con le altre potenze: India e Cina
August 10, 2025
«Nessuno sfida Trump come il presidente del Brasile». L’endorsement è di quelli che pesano, anche perché arriva dal più importante giornale statunitense, il New York Times, al quale Lula ha rilasciato pochi fa la prima intervista da 13 anni. E in effetti è così, perché mentre secondo gli esperti l’Europa si è di fatto piegata alle ostilità di Washington, in altre parti del mondo c’è chi reagisce: la stessa Cina, silenziosamente, ha saputo fare di conto, ma l’esempio del Brasile è ancora più significativo perché va ben oltre il campo degli affari. «Se Trump mi conoscesse, saprebbe che sono 20 volte meglio di Bolsonaro», ha detto Lula al New York Times, riferendosi all’appoggio incondizionato che il tycoon sta dando all’ex presidente, agli arresti domiciliari per tentato golpe.
Trump ha parlato di «caccia alle streghe» e «negazione della libertà di espressione» ai danni dell’alleato brasiliano, e di fatto ha portato i dazi addirittura al 50% soprattutto per motivi politici, dato che il Brasile è l’unico Paese tra quelli colpiti dai dazi con il quale gli Stati Uniti hanno invece un saldo commerciale positivo. Anzi, dipendono fortemente dalle importazioni di beni alimentari come carne bovina e caffè, ma pure dalla catena di approvvigionamento industriale e tecnologico. Si pensi all’acciaio ma soprattutto ai semiconduttori, di cui il Brasile è player strategico: non ne produce ma è leader nella fase di test e incapsulamento ed esporta per 8,5 miliardi di dollari l’anno, tanto che il governo sta investendo molti soldi per rilanciare l’azienda statale Ceitec e fare del Paese il terzo polo mondiale dei microchip, insieme a Usa e Cina.
Pure sui semiconduttori però Trump ha tutt’altro che seppellito l’ascia di guerra, annunciando che applicherà tariffe al 100%. Tra Brasile e Usa lo scontro è diplomatico prima ancora che economico: i due Paesi sono sull’orlo di una crisi di nervi da circa un anno, quando persino Elon Musk ai tempi aveva litigato col giudice della corte suprema Alexandre de Moraes, grande accusatore di Bolsonaro, rimediando una multa per divulgazione di fake news e poi il blocco di X per due mesi. Oggi Moraes è definito da Trump un «violatore di diritti umani» e gli è impedito tramite ordinanza di mettere piede negli Usa. Lula però – a differenza di altri – non si è fatto intimidire: ha prima trattato, ottenendo che il 60-65% dell’export brasiliano verso il Nordamerica venisse risparmiato, soprattutto nei settori del petrolio e dell’aviazione (anche se il Brasile rimane uno dei Paesi più penalizzati, con la tariffa media che passa dal 2% al 32%). E poi è passato al contrattacco, denunciando lo scorso 6 agosto gli Stati Uniti all’Organizzazione mondiale del commercio per violazione dei principi di libero scambio. Un’azione che tuttavia rischia di rimanere solo simbolica, visto che dal 2019 l’organismo è di fatto bloccato perché all’epoca della sua prima presidenza lo stesso Trump non volle rinnovare il collegio di ultima istanza. «Siamo stanchi di essere subordinati al Nord, non abbiamo bisogno di imperatori», aveva già detto Lula un mese fa ospitando il Brics a Rio de Janeiro.
E proprio attraverso la rete degli ex emergenti Lula si sta facendo regista del multilateralismo a livello globale: dopo la stangata sull’India, che secondo la Casa Bianca non dovrebbe più comprare petrolio russo, il presidente brasiliano ha chiamato i colleghi Modi e Vladimir Putin e sentirà a breve anche il cinese Xi Jinping. L’asse Brasilia-Pechino non è affatto una novità (tra le tante cose, il Brasile sta diventando la fabbrica di auto elettriche cinesi) ma ora dal Sudamerica arriva la sponda per lo storico incontro in programma a fine mese tra Modi e Xi, che non si vedono dal 2018.
La tela di Lula non si ferma al mondo Brics ma teorizza un gioco di squadra a tutto campo per districarsi nel campo minato dei dazi, che al NY Times ha paragonato al bug informatico di inizio millennio. Per scongiurare il cortocircuito, il presidente brasiliano insiste da tempo anche sull’accordo di libero scambio tra l’area commerciale sudamericana (Mercosur) e l’Unione europea, che creerebbe di fatto un nuovo asse alternativo a quello scricchiolante tra Europa e Nordamerica. Il trattato è pronto, va solo ratificato: permetterebbe ai Paesi membri di avere accesso più veloce e meno costoso ad una vasta gamma di commodities alimentari e pure di materie prime energetiche, di cui il continente sudamericano abbonda ma che al momento stiamo regalando alla Cina e alla Russia. Penalizzata dalle decisioni di Washington, l’Italia potrebbe ad esempio trovare nuovi sbocchi per l’export dei settori meccanico, siderurgico e farmaceutico, e importare a prezzi più vantaggiosi frutta, zucchero, caffè, cellulosa, carne bovina. C’è però da superare le resistenze del mondo agricolo, soprattutto quello nostro e quello francese, che temono la concorrenza sleale e il minor controllo sulla qualità dei prodotti. Ma bisogna fare presto: nessuno più del Sudamerica ci sta indicando la strada per non rimanere in balia dei dazi.
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