Trump sta usando il fentanyl per ridefinire il potere degli Usa in Sudamerica
La classificazione dell’oppioide sintetico come «bomba chimica» cerca di dare sostegno legale alla guerra antinarcos del tycoon. Il vero obiettivo, però, sembra l’avanzata verso il vecchio “cortile di casa”

Guerra alla droga, atto secondo. E, come il primo, avviato dalla dichiarazione dell’allora presidente Richard Nixon del 17 giugno 1971, il contrasto degli stupefacenti non è il principale obiettivo. C’è, però, una differenza considerevole tra «l’offensiva totale» di 54 anni fa e il «conflitto armato non internazionale» con i narcos lanciato da Donald Trump. Come spiega lo storico David Farber – che ha appena pubblicato “War on drugs”, un’attenta ricostruzione di mezzo secolo di strategia anti-narcotici Usa –, la scelta muscolare di Nixon, all’inizio, rappresentava una misura di salute pubblica. L’epidemia di eroina faceva strage dei soldati tornati dal Vietnam, seminando il panico nelle famiglie della classe media americana. Il leader conservatore cercò di correre ai ripari, scaricando la responsabilità sui Paesi produttori. Nel giro di qualche anno, poi, “scoprì” che la lotta alla droga poteva trasformarsi nello strumento politico perfetto per controllare l’emisfero sud del Continente e sottrarlo all’infiltrazione comunista, reale o presunta. Per l’attuale capo della Casa Bianca, invece, vale il processo opposto. La soluzione dell’emergenza Fentanyl – reale , con una media di 70mila morti l’anno – è tuttalpiù un effetto collaterale della “sua” battaglia. «Enlist and expandere» ovvero «arruolare e allargare»: i pilastri del “Piano per la sicurezza nazionale” di Washington per l’America Latina, presentato la settimana scorsa, sono le chiavi della “nuova guerra dell’oppio”, o, meglio, degli oppioidi.
L’arma del Fentanyl
Il provvedimento più recente, lunedì, è la classificazione del Fentanyl come «arma di distruzione di massa». «È più simile a una bomba chimica che a una droga», ha affermato il presidente. Ancora una volta, l’Amministrazione ha scelto la “scorciatoia” di un ordine esecutivo: il 221esimo. Numero con cui Trump ha oltrepassato in meno di un anno i decreti emanati nel primo mandato. Dal punto di vista legale, gli effetti sono dubbi: non sarà facile per i tribunali, dimostrare come gli accusati di trafficare l’oppioide sintetico abbiano effettivamente maneggiato un’arma di distruzione di massa. Già nei casi di terrorismo, la legge federale che le proibisce si è rivelata poco significativa. Il proposito, dunque, è di altro tipo: puntellare – o cercare di farlo – dal punto di vista giuridico l’avanzata aggressiva al di là del Rio Bravo. Nel mirino c’è, in primis, il Venezuela di Nicolás Maduro. L’orizzonte, però, è ben più ampio. Il tycoon ha recuperato il vecchio interventismo della Dottrina Monroe dalla soffitta in cui sembrava finita negli ultimi decenni e l’ha declinata con quello che i politologi chiamano “stile madman”: l’imprevedibilità eretta a bussola dell’azione politica. Dal 2 settembre, gli Usa attaccano nei Caraibi e – seppur con molta meno intensità – nel Pacifico imbarcazioni accusate di trasportare droga. Finora ne ha affondate 25 con un bilancio di 95 vittime, le ultime otto due giorni fa. «Omicidi extragiudiziali», secondo gli esperti internazionali: il Pentagono ha emesso la sentenza di morte senza alcuna autorizzazione dei magistrati competenti né prove dell’effettivo coinvolgimento dei “bersagli” nel commercio di stupefacenti. Washington si giustifica equiparando il narcotraffico al terrorismo: con il colombiano Clan del Golfo appena incluso, sono nove le mafie della droga nella lista delle organizzazioni terroristiche. Un’idea controversa agli occhi degli stessi repubblicani specie dopo la diffusione da parte del Washington Post del video del 2 settembre in cui la portaerei statunitense colpisce due superstiti a un primo blitz, uccidendoli.
I paradossi anti-narcos
«Il segretario alla Guerra, Pete Hagseth, ha fatto bene: dobbiamo eliminare tutti i narcos», ha tuonato Trump. Lo stesso presidente che il 3 dicembre ha graziato Juan Orlando Hernández, l’ex capo dello stato dell’Honduras condannato all’ergastolo da un tribunale di New York per complicità con il cartello di Sinaloa. La sua scarcerazione è avvenuta in concomitanza con il voto a Tegucigalpa in cui il tycoon ha preso espressamente partito per il candidato dell’ultradestra, Nasry Asfura, con tanto di minaccia di tagli agli aiuti in caso di una sua sconfitta. «Arruolare e allargare»: di fronte alla determinazione a costruirsi una cintura di sicurezza di amici e alleati, la droga passa in secondo piano. In gioco, oltre all’ampliamento della sfera di influenza Usa ai danni di Pechino, c’è il business delle risorse, a cominciare dalle ambitissime terre rare di cui l’America Latina è ricca. Questo spiega anche perché sia Caracas l’epicentro della lotta contro il Fentanyl sebbene non lo produca. Sono i cartelli messicani a fabbricarlo all’interno del proprio territorio o già dentro gli Stati Uniti. La “via” dell’oppioide sintetico sono, dunque, i 3.200 chilometri di frontiera, blindati per i migranti ma comunque permeabili al narcotraffico. Al cuore del giro d’affari, inoltre, c’è la cocaina che ha avuto un nuovo boom mentre l’attenzione americana era concentrata sul Fentanyl. Appena il 24 per cento di quest’ultima passa per la rotta venezuelana, cioè i Caraibi. I tre quarti viaggiano lungo la direttrice pacifica. È la cosiddetta autostrada ecuadoriana.
Ecuador, il trampolino
Il “triangolo della coca” è rappresentato da tre Paesi: Colombia, Bolivia e Perù. Per eludere i controlli, le mafie messicane – che ne gestiscono il giro d’affari globale – hanno cominciato a esportarla attraverso i porti ecuadoriani. E continuano a farla rivelando l’inefficacia del pugno di ferro – retorico – dell’attuale presidente, Daniel Noboa, alleato di ferro di Trump, che, come il suo modello, ha dichiarato la propria «guerra alla droga». Dopo aver schierato l’esercito, ora Quito ha deciso di chiedere l’aiuto Usa. L’ha ottenuto immediatamente. Truppe statunitensi sono appena sbarcate nel Paese andino e si sono dislocate nella base di Manta, fino al 2009 alle dipendenze di Washington. Un mese fa, in un referendum, più del 60 per cento dei cittadini si era espresso contro la presenza militare statunitense. Questo, però, non ha fermato Trump. «Si tratta di un’operazione temporanea secondo gli accordi di cooperazione per la sicurezza del 2023», si è giustificato Noboa. «Arruolare e allargare»: la nuova Dottrina Monroe prende forma, tessera dopo tessera.
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