Cacao, caffè e povertà: l'isola di Sao Tomé è una "favela" verde
di Redazione
Duecentotrentamila abitanti, con una crescita demografica importante, in un contesto caratterizzato per un terzo della superficie dalla foresta pluviale: viaggio nelle piantagioni di un luogo simb

Quando si atterra a Sao Tomé sorprende il verde. Dopo, i bambini che giocano con i copertoni nella polvere e salutano con il pollice alzato, le donne che lavano i panni nei fiumiciattoli, i pescatori che riparano le vele di plastica. Un’isola coperta per un terzo da foresta, con 3,5 figli per donna e la metà della popolazione sotto i 25 anni. Della lussureggiante e intricata foresta pluviale l’area conosciuta è all’inizio del parco di Obò. Il resto è inesplorato. Se si esclude la capitale che dà il nome allo Stato, è alla foresta che i residenti sottraggono spazio a colpi di machete per farci villaggi di palafitte e discariche di rifiuti dati alle fiamme per l’assenza di un sistema di raccolta.
Accanto, sulle colline, proliferano le sterminate coltivazioni di cacao, caffè, palme da cocco e da olio. L’isola conta 230mila abitanti con una crescita del 2% annuo. Non si tratta di nativi ma dei pronipoti degli schiavi dell’Africa continentale introdotti dai portoghesi per spedirli in America o adoperarli per le piantagioni. È questo il triste camino pa Sao Tomé cantato da Cesaria Evora. Gli schiavi alloggiavano intorno alle Rochas, enormi fattorie simili a quelle che contornavano le piantagioni di cotone negli Stati Uniti. Le rochas sono cadute in disgrazia dopo l’abbandono da parte dei portoghesi, ma non hanno smesso di ospitare raccoglitori di cacao.
Gli enormi, maleodoranti edifici in rovina sono occupati dai lavoratori e dalle loro famiglie. Uomini, donne e bambini vestiti spesso di cenci condividono cadenti spazi in muratura. Qui, nonostante le vaccinazioni degli scorsi decenni, si diffonde la tubercolosi, prima causa di morte maschile. «Prendo centocinquanta dollari al mese» dice un raccoglitore di cacao, consumatore assiduo di vino di palma, l’alcolico locale. «L’alcolismo è un problema serio» mi spiega un italiano residente sull’isola. Intorno al vino di palma si fa comunità nelle rochas. Contro il vino le campagne islamiste fomentate dai turchi, che gestiscono con una propria società energetica la distribuzione della corrente elettrica lasciando spesso l’isola al buio. L’isola è il ventiduesimo Stato più povero al mondo, con il settanta per cento dei residenti sotto la soglia di povertà.
Non si muore di fame perché la natura è generosa e il debito alimentare è stato azzerato dalla Cina. «Come mai tanta povertà?» domando a un imprenditore. «Manca la trasformazione in loco del cacao» dice. Sao Tomé esporta cacao dopo un processo di essicazione a mano, dentro vecchi magazzini per la fermentazione. Nelle piantagioni lavorano migliaia di saotomesi, senza contare le decine di migliaia di raccoglitori di cocco, papaya e frutti dell’albero del pane per fornire mercati e resort per gli ancora radi turisti che soggiornano sulle spiagge meravigliose del sud. Come praia Jalé, contornata di palme e sulla quale l’oceano fragoroso sparge il suo aroma e la sabbia è pestata dalle zampe delle tartarughe appena nate.
Insomma, manca il cioccolato, un prodotto finito, perché il mercato è egemonizzato dai grossisti del cacao. I compratori francesi fanno il prezzo e dominano il porto commerciale del Paese. Sul caffè, invece, il prezzo lo fa il Madagascar, il più forte produttore africano. Anche del caffè l’isola non fa trasformazione, fatta eccezione per piccoli produttori rigorosamente occidentali. Lo stesso per la vaniglia e altre spezie. L’assenza di una filiera agroindustriale genera dipendenza dall’estero. Il sistema infrastrutturale, strade malconce e nessuna ferrovia, è fermo ai tempi della protezione sovietico-cubana. A fatica le Toyota quattro per quattro si muovono su queste carreggiate. Ciononostante proliferano le motociclette importate dalla Cina e gli incidenti stradali tra autostoppisti e centauri mietono decine di morti. I pochi cantieri aperti sono nella capitale, quelli fuori chiudono per debiti o sono tenuti in piedi dalla cooperazione internazionale. I villaggi emergono a fatica da una vegetazione prepotente, che si riprende tutto con gli interessi. Ogni villaggio ha il suo ripetitore per gli smartphone ma non ha acqua corrente o fogna, il carbone per cucinare è ricavato dai roghi di legno di palma tra una baracca e l’altra. Nelle danze tradizionali e animiste è presente questo antagonismo tra umanità e natura, tra società e ambiente: come nel carnevale del porto di Neves, dove le suore francescane hanno messo su una scuola, una sartoria, un centro anziani.
«L’Africa è faticosa» dice una giovane. Faticosa, sì, eppure Sao Tomé ha i requisiti per uscire dal lavoro povero e suddito, ma servono istruzione, industrie e turismo. Perché rattrista vedere i ragazzini in età scolare pagaiare all’alba sulle canoe gettando reti di frasche per catturare i barracuda. E amareggia vedere muscolose sagome armate di machete uscire dalle foreste con un carico di canna da zucchero da svendere per pochi centesimi di euro.
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