Aziz, Nahla, Jamal... il buco nero degli scomparsi di Gaza
Undicimila palestinesi scomparsi nel nulla: così un Centro cerca le loro tracce. I parenti: vogliamo sapere cosa è accaduto

Sono stati trovati la sua bicicletta, il cellulare e la torcia, e solo dopo è stato scoperto il corpo senza vita della persona che era con lui nei dintorni della società elettrica a nord del campo di Nuseirat. Di Aziz Izzat Joda, palestinese di quasi settant’anni, invece, non si hanno più notizie. È sparito a settembre senza lasciare traccia. «Vogliamo solo sapere cosa gli è accaduto, per chiudere questa ferita che ci tormenta da mesi», hanno detto i familiari ai volontari del “Centro palestinese per le persone scomparse e disperse con la forza”, fondato lo scorso febbraio a Gaza City con l’obiettivo di tenere un registro delle sparizioni, e di rintracciare chi è svanito nel nulla.
È stato creato durante la prima tregua, e ora con un nuovo possibile stop alla guerra, i volontari si aspettano un altro picco di richieste. «Durante il cessate il fuoco (d’inizio anno, ndr), le famiglie hanno potuto muoversi di più, condividere segnalazioni, iniziare a fare domande e a trovare risposte» spiega ad Avvenire il coordinatore del Centro, il giovane Ghazi al-Majdalawi. «Una nuova tregua permetterebbe alle persone di denunciare e cercare, cosa che desiderano disperatamente. Molti sono ora bloccati in aree prive di elettricità, comunicazioni o possibilità di muoversi».
Secondo i dati dell'Ufficio centrale di statistica palestinese citati dall’Onu, nella Striscia le persone di cui non si hanno più notizie sono oltre undicimila. Mancano registri ufficiali e indagini che determinino se siano morte in attacchi aerei, detenute da Israele o seppellite senza che i nomi entrassero negli elenchi delle vittime. «Le forze di occupazione impediscono l'ingresso di materiale per i test del Dna, rendendo difficile identificare i corpi», prosegue Ghazi al-Majdalawi, che ha creato un database digitale, per ora in piccola parte consultabile online. «Abbiamo documentato circa cinquemila casi. Le famiglie ci contattano al telefono o su un modulo di registrazione in rete. Il primo caso è stato quello del giornalista Haitham Abdulwahid, che era mio amico. Un gran numero di persone rimane sotto le macerie. Altre sono state arrestate dai soldati israeliani. Siamo riusciti a confermare che alcuni erano detenuti malgrado l'esercito negasse».
Tra i casi seguiti c’è quello della signora Nahla al-Birem, costretta a fuggire da casa sua a Gaza City, con il marito in sedia a rotelle. La sorella ha avuto notizia della morte di lui, ma nulla si sa di Nahla. C’è poi il caso di Ahmed al-Ajrami, scomparso durante uno sfollamento nel marzo del 2024: «Pensavamo che gli orrori della guerra fossero la cosa più difficile, ma perdere Ahmed, vivendo in questo vuoto mortale, è una tortura essa stessa», ha detto il fratello. A fine giugno il Centro ha denunciato il fatto che l’esercito di Tel Aviv vieta alla protezione civile di entrare in certe zone per recuperare le vittime. «Per giorni hanno impedito di raggiungere l’area “Golden Hall” nel nord di Gaza, (…) nonostante i ripetuti sforzi compiuti tramite l'Ufficio Onu dell’Ocha» fino a quando non si è riusciti a prelevare quindici cadaveri, «alcuni in stato di decomposizione. Questo sistematico comportamento israeliano costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale umanitario, che impone di rispettare i corpi dei defunti».
Una notte di dicembre Mohammad Jamal Atiya Banat, padre di 38 anni, è uscito di casa e non ha più fatto ritorno. «Abbiamo cercato ovunque – ha detto la moglie, che con sei bambini ancora lo aspetta –. Ho provato a dire ai nostri figli che è in viaggio, ma loro sono troppo intelligenti. Mi guardano negli occhi e sanno che nascondo la verità».
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