Arabia Saudita e Israele oggi sono più distanti. A causa della Siria
Gli sceicchi vogliono integrare Damasco nell'area, Netanyahu pensa alla sicurezza del suo Paese e per questo bombarda. Così l'alleanza che c'era prima del 7 ottobre di fatto è già svanita

In Siria, israeliani e sauditi stanno sperimentando quanto i loro approcci regionali, dopo la guerra a Gaza, possano entrare in rotta di collisione. Infatti, la strategia per il Medio Oriente del governo di Israele si fa strada, dopo il 7 ottobre, con le bombe. La visione della leadership dell’Arabia Saudita per la regione si fa spazio, invece, con gli accordi economici. È una questione di obiettivi: Tel Aviv mette la sicurezza nazionale al primo posto (reale, percepita, talvolta strumentale), mentre Riad vede nella stabilità regionale la priorità assoluta.
Al di là dei giudizi di merito, i due percorsi appaiono, politicamente, sempre più inconciliabili. Lo dimostra la nuova Siria del presidente autoproclamato Ahmed al-Sharaa, in cui Israele sta intensificando – per frequenza e qualità degli obiettivi – i bombarda-menti, mentre le monarchie del Golfo investono in ricostruzione. Non è un gioco delle parti: la crescente divaricazione geopolitica fra gli interessi di Israele e dell’Arabia Saudita, i due aspiranti egemoni in Medio Oriente, è già una realtà. E seppur ancora sottotraccia, è un problema per tutti, a cominciare dagli Stati Uniti di Trump, di nuovo “strattonati”, come già sulla guerra all’Iran, fra le posizioni israeliane e saudite. Due mesi fa, la stretta di mano fra Trump e al-Sharaa avvenne proprio a Riad, sotto lo sguardo e la “regia” del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Per i sauditi, integrare Damasco nella regione significa recuperare un’area d’influenza che era iraniana e, soprattutto, contenere la Turchia, primo sponsor del leader siriano. L’allargamento della distanza politica tra Israele e Arabia Saudita, più in generale tra Israele e monarchie del Golfo, non è un buon segno per gli equilibri in Medio Oriente. Perché il campione militare (Israele) e il campione economico-religioso (Arabia Saudita), sono i perni del nuovo ordine mediorientale: dalla loro relazione dipende e dipenderà il grado di stabilità dell’intera regione. Tel Aviv e Riad devono trovare il modo, quindi le regole condivise, per convivere. E c’è parecchio da fare.
Prima del 7 ottobre, le aspirazioni regionali di Israele e Arabia Saudita erano compatibili, persino complementari. Entrambe puntavano all’indebolimento dell’Iran e del suo “asse della resistenza” di milizie alleate. Un risultato che Tel Aviv ha poi ottenuto e di cui, sul piano geopolitico, ha beneficiato anche Riad. Cosa si è incrinato allora? Sono due le variabili che stanno disallineando gli interessi degli israeliani e dei sauditi in Medio Oriente: la prima è la creazione di uno Stato palestinese, diventato un passo ineludibile per la leadership saudita a causa di Gaza; la seconda è il ripetuto uso della forza nella regione da parte di Israele.
Nei giorni in cui gli israeliani bombardavano l’Iran ipotizzando persino il cambio di regime, sulla stampa araba del Golfo alcune tra le più influenti voci locali hanno cominciato a esprimere disagio per “l’unilateralismo militare” di Israele. Qualcuno, come il saudita Faisal Abbas in un editoriale, ha denunciato come Israele utilizzerebbe la sicurezza come “pretesto” e “tattica” per “rafforzare la sua posizione regionale”. E Mohamad Ali Harisi, editorialista del principale quotidiano degli Emirati Arabi in lingua inglese, ha scritto che uno dei rischi più grandi è che il governo israeliano «conduca la regione verso anni – forse decenni – di instabilità», a causa di «un’agenda di espansionismo, annessione e ultra-nazionalismo». Tre giorni prima che Israele bombardasse i centri del nuovo potere di Damasco, il gigante del trasporto e della logistica degli Emirati Arabi, DP World, firmava nella capitale siriana un accordo per la gestione e il rilancio del porto di Tartus nel Mediterraneo. L’accordo è trentennale: segno che, dopo alcune riserve iniziali, dal Golfo guardano a questa Siria come a un investimento di lungo periodo.
Ora, il comunicato congiunto fra i Paesi arabi, guidati da Riad, e la Turchia, condanna gli attacchi di Israele ribadendo il sostegno alla sovranità siriana. E riecheggia la telefonata di Mohammed bin Salman ad Ahmed al-Sharaa, in cui non era mancato un invito alla “coesione nazionale” dopo gli scontri settari prima con gli alawiti e poi con i drusi. La mossa evidenzia una convergenza di interessi fra paesi anche rivali.
Le regole della convivenza regionale tra Israele e Arabia Saudita, gli aspiranti egemoni dai percorsi ora divergenti, verranno scritte, oppure no, anche in Siria.
Al di là dei giudizi di merito, i due percorsi appaiono, politicamente, sempre più inconciliabili. Lo dimostra la nuova Siria del presidente autoproclamato Ahmed al-Sharaa, in cui Israele sta intensificando – per frequenza e qualità degli obiettivi – i bombarda-menti, mentre le monarchie del Golfo investono in ricostruzione. Non è un gioco delle parti: la crescente divaricazione geopolitica fra gli interessi di Israele e dell’Arabia Saudita, i due aspiranti egemoni in Medio Oriente, è già una realtà. E seppur ancora sottotraccia, è un problema per tutti, a cominciare dagli Stati Uniti di Trump, di nuovo “strattonati”, come già sulla guerra all’Iran, fra le posizioni israeliane e saudite. Due mesi fa, la stretta di mano fra Trump e al-Sharaa avvenne proprio a Riad, sotto lo sguardo e la “regia” del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Per i sauditi, integrare Damasco nella regione significa recuperare un’area d’influenza che era iraniana e, soprattutto, contenere la Turchia, primo sponsor del leader siriano. L’allargamento della distanza politica tra Israele e Arabia Saudita, più in generale tra Israele e monarchie del Golfo, non è un buon segno per gli equilibri in Medio Oriente. Perché il campione militare (Israele) e il campione economico-religioso (Arabia Saudita), sono i perni del nuovo ordine mediorientale: dalla loro relazione dipende e dipenderà il grado di stabilità dell’intera regione. Tel Aviv e Riad devono trovare il modo, quindi le regole condivise, per convivere. E c’è parecchio da fare.
Prima del 7 ottobre, le aspirazioni regionali di Israele e Arabia Saudita erano compatibili, persino complementari. Entrambe puntavano all’indebolimento dell’Iran e del suo “asse della resistenza” di milizie alleate. Un risultato che Tel Aviv ha poi ottenuto e di cui, sul piano geopolitico, ha beneficiato anche Riad. Cosa si è incrinato allora? Sono due le variabili che stanno disallineando gli interessi degli israeliani e dei sauditi in Medio Oriente: la prima è la creazione di uno Stato palestinese, diventato un passo ineludibile per la leadership saudita a causa di Gaza; la seconda è il ripetuto uso della forza nella regione da parte di Israele.
Nei giorni in cui gli israeliani bombardavano l’Iran ipotizzando persino il cambio di regime, sulla stampa araba del Golfo alcune tra le più influenti voci locali hanno cominciato a esprimere disagio per “l’unilateralismo militare” di Israele. Qualcuno, come il saudita Faisal Abbas in un editoriale, ha denunciato come Israele utilizzerebbe la sicurezza come “pretesto” e “tattica” per “rafforzare la sua posizione regionale”. E Mohamad Ali Harisi, editorialista del principale quotidiano degli Emirati Arabi in lingua inglese, ha scritto che uno dei rischi più grandi è che il governo israeliano «conduca la regione verso anni – forse decenni – di instabilità», a causa di «un’agenda di espansionismo, annessione e ultra-nazionalismo». Tre giorni prima che Israele bombardasse i centri del nuovo potere di Damasco, il gigante del trasporto e della logistica degli Emirati Arabi, DP World, firmava nella capitale siriana un accordo per la gestione e il rilancio del porto di Tartus nel Mediterraneo. L’accordo è trentennale: segno che, dopo alcune riserve iniziali, dal Golfo guardano a questa Siria come a un investimento di lungo periodo.
Ora, il comunicato congiunto fra i Paesi arabi, guidati da Riad, e la Turchia, condanna gli attacchi di Israele ribadendo il sostegno alla sovranità siriana. E riecheggia la telefonata di Mohammed bin Salman ad Ahmed al-Sharaa, in cui non era mancato un invito alla “coesione nazionale” dopo gli scontri settari prima con gli alawiti e poi con i drusi. La mossa evidenzia una convergenza di interessi fra paesi anche rivali.
Le regole della convivenza regionale tra Israele e Arabia Saudita, gli aspiranti egemoni dai percorsi ora divergenti, verranno scritte, oppure no, anche in Siria.
© RIPRODUZIONE RISERVATA






